La dodicesima edizione della rassegna aretina Invito di Sosta si è aperta il 10 novembre scorso con la prima nazionale di Monsone. Dopo qualche giorno raggiungiamo telefonicamente la coreografa Masako Matshushita durante lo scalo di un volo tra l’Italia e il Giappone.
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Il monsone è ambiguo: così l’ha descritto Masako Matsushita nel dialogo col pubblico che ha fatto seguito alla prima nazionale del suo spettacolo al Teatro Mecenate di Arezzo. La nostra conversazione ha preso avvio proprio da questo: il monsone è disastro ma è anche portatore di vita; è collettivo, perché sconvolge una comunità, ma al tempo stesso ha per ognuno una declinazione privata. Monsone restituisce questa complessità, in uno spettacolo polimorfo anche per la convivenza di danza, musica elettronica e taiko, la tipica percussione giapponese. A partire dal lavoro personale richiesto alle tre danzatrici e al musicista sul palcoscenico – Olimpia Fortuni, Roberta Racis, Giulia Torri e Mugen Yahiro – il dialogo con Matsushita è poi diventato un più ampio ragionamento sulle potenzialità del corpo nella danza contemporanea e nel suo dialogo con le arti figurative.
Masako, di Monsone sei la coreografa. Come hanno dialogato la tua idea per la coreografia e la personale ricerca compiuta da ogni interprete?
Il lavoro di Monsone è molto personale e infatti a partire dalla mia idea è poi nata una collaborazione attiva con i danzatori coinvolti. Gli interpreti non sono macchine: ciò che si mette in scena è anche frutto del loro contributo artistico. Ovviamente questo cambia a seconda del momento: alcune parti sono rigidamente scritte, in altre il disegno dello spazio è ben definito ma poi sono i danzatori sul palco a decidere come agire. La stessa cosa vale per l’aspetto musicale: ho vissuto tutto lo spettacolo come una collaborazione, condivisa al punto che Monsone non potrebbe funzionare con altri interpreti.
Che lavoro hai fatto con i suoni di Monsone, con i suoi tanti ritmi?
Danilo Valsecchi e Mugen Yahiro hanno composto la musica proprio durante la creazione dello spettacolo. Una volta consegnate loro le parole chiave, le immagini e i concetti su cui lavorare, i ritmi sono nati sul momento, in una ricerca collettiva fatta di momenti di improvvisazione. Per esempio, ogni danzatrice ha lavorato sul proprio “territorio” e sul proprio “clima”: siamo anche stati in biblioteca a raccogliere materiale che poi, tra le altre cose, è stato utile per lavorare alle qualità sonore più adatte.
Come ha funzionato questo lavoro in biblioteca di cui parli?
Il primissimo giorno in cui ci siamo incontrati ho detto al gruppo: «Oggi staremo tutto il giorno in biblioteca: per studiare un po’, per studiarsi un po’, per trovare delle immagini, delle frasi, delle parole per descrivere noi stessi, il nostro territorio, la nostra terra». È stato un vero lavoro di ricerca, da cui poi ha avuto origine il lavoro pratico.
A seconda delle occasioni tu sei coreografa e danzatrice: questo cambiamento di ruoli ti piace o ti crea delle difficoltà?
È la cosa più bella che potesse succedermi! Credo che il mio lavoro principale sia quello di coreografa; vivo invece il lavoro di interpretazione come il momento in cui mi posso liberare dalle responsabilità e nutrirmi di quello che è richiesto dal coreografo. È una cosa che ho imparato a fare con l’esperienza: all’inizio, quando mi mettevo nelle veste del danzatore, la mia voce autoriale era sempre troppo presente; col tempo invece ho imparato ad amare la versatilità richiesta da ogni coreografo: è stato un interessante lavoro di annullamento e posso dire che sto bene, in questo continuo scambio di ruoli.
Fai attualmente parte del progetto europeo Dancing Museums. Qual è il tuo ruolo nel progetto? Di cosa ti occupi al suo interno?
Di tantissime cose! Proprio ieri abbiamo finito il terzo momento di incontro: è un progetto enorme, che coinvolge sette paesi diversi, musei, università, artisti e organizzazioni di danza. L’obiettivo è quello di esplorare le possibilità di un dialogo vivo tra la danza e i musei di arti figurative; si vuole indagare come il corpo di un professionista del movimento possa cambiare la relazione tra l’opera d’arte e il visitatore.
Immagino che il problema sia come lavorare per non appiattire un linguaggio nell’altro.
Esatto. È ambito complicato, anche perché bisogna tenere conto che il museo di oggi non è più il museo di ieri: il museo oggi chiede di diventare esperienziale e questo progetto europeo nasce proprio da un’esigenza di ragionamento sulla direzione da prendere.
Certo, per non banalizzare il concetto di museo esperienziale è richiesta una riflessione alta: al museo, al visitatore e a chiunque sia coinvolto in questo “risvolto empirico”.
Infatti non sappiamo ancora definire bene il lavoro. Per me, per esempio, questo progetto è partito sotto la parola “fallimento”, nella convinzione che l’opera d’arte parli da sola e non abbia bisogno di un professionista della danza e del movimento per avere un valore. Col tempo però sto iniziando a riflettere su come dare valore tanto all’arte figurativa quanto alla danza, evitando il rischio di decorare l’una con l’altra. Oggi sta cambiando tutto. Basti pensare a quanto peso ha, nel nostro mondo capitalista, la portata culturale di un Louvre ad Abu Dhabi: ha la stessa valenza dell’uomo arrivato sulla Luna, perché comporta un radicale cambiamento di pensiero sullo stesso museo. E con Dancing Museums stiamo lavorando proprio su questo, sui concetti di multidisciplinarietà, interdisciplinarietà, extradisciplinarietà nei musei di oggi.
Virginia Magnaghi
foto di @LucianoOnza