di Rafael Spregelburd
regia di Luca Ronconi
visto al Piccolo Teatro di Milano _ 15 Gennaio-10 Febbraio 2013

“Nelle società organizzate intorno al capitalismo estremo non si dovrebbe parlare di pazzia ma di mero adattamento”. Di questo impercettibile spostarsi di confini labili, di questo lento scivolare della normalità verso terreni viscosi e ignoti si occupa la drammaturgia di Rafael Spregelburd. La quotidianità sfugge di mano, le persone perdono il controllo, i contorni delle psicologie e delle situazioni si sgranano. Ed è questa la genialità del drammaturgo argentino: fotografare quei momenti (e quanti potremmo rintracciarne anche noi, nelle nostre vite?) in cui il surreale deforma lo sguardo, la disperazione e il comico procedono a braccetto ed è lecito allo stesso tempo ridere o piangere.

Per la seconda volta Luca Ronconi si avvicina a una scrittura che non gli si direbbe congeniale, così rapida e ironica, così priva di astrazioni e intellettualismi; e anche questa volta, Spregelburd gli giova. Rispetto a La modestia, la regia fa un passo ulteriore nella direzione della pulizia, della semplicità, della mancanza di orpelli; scompaiono quasi del tutto i complicati e costosi meccanismi scenografici a cui il direttore artistico del Piccolo Teatro ci ha abituato nel corso degli anni. Gli spazi – ampi, essenziali, mai estetizzanti – sembrano rivendicare la propria dimensione simbolica: sono cornici dell’agire umano. Protagonisti assoluti divengono allora i personaggi, i loro rapporti di forza, il loro spostarsi sulla scena: madri in lutto e coreografe, sensitive e travestiti, psicologi e giovani in cerca di un’identità sessuale si muovono e sciamano – nevrotici come piccoli insetti – in preda a un panico del vivere che solo la morte sembra in grado di fermare.

A farla da padrone sono gli attori: una ben assortita squadra di sedici eccellenze a cui Ronconi lascia l’onore e l’onere del contributo più importante all’allestimento. Lo spettacolo è corale e gli interpreti – pur nelle diversità di stili e di background – lavorano come gli strumenti accordati di un’orchestra ben diretta. Maria Paiato è una madre quasi almodovariana, superba, ingombrante ma mai sovradimensionata; stupisce ancora una volta Francesca Ciocchetti per la sua capacità di lavorare i personaggi in modo minuto e sottile, con uno stile che non cerca l’eclatante ma un’organicità profonda (il suo disperato “quando parli non ti si capisce!” urlato all’amica è degno del miglior Nanni Moretti); Valentina Picello sembra adattarsi alla perfezione all’ironia stralunata del testo.

Il panico è, insomma, un bello spettacolo. Senza dubbio il miglior Ronconi degli ultimi anni. Non sfuggono però certi retaggi stilistici: se Spregelburd racconta il quotidiano con un linguaggio ordinario, a tratti volutamente sciatto, Ronconi non rinuncia a conferire alle battute la consueta dilatata densità. Ed ecco che certi scambi che immaginiamo rapidissimi e – come si dice in gergo – ‘buttati via’ nella versione argentina, divengono leggermente più lenti e sgranati (su tutti, Iaia Forte pare dare alle sue parole un’importanza che non hanno): la pausa si somma impercettibilmente alla pausa, la sospensione alla sospensione e alla fine – complice anche una chiusura non del tutto risolta – si avverte un leggero surplus di pesantezza. Ma è uno scotto che si paga volentieri, per un lavoro riuscito e convincente.

Maddalena Giovannelli