In occasione dell’anteprima di Hotel Dalida, in scena al Teatro Filodrammatici di Milano il 10 maggio nell’ambito del festival Lecite Visioni, abbiamo dialogato con la regista e attrice Roberta Lidia De Stefano. Ne è risultato uno scambio in cui la queerness dello spettacolo ha finito per scalfire, con un rimando ineludibile alle tavole del palcoscenico, i tradizionali concetti di verità e storia.
Come nasce Hotel Dalida? Da dove arriva l’urgenza di raccontare una storia che intreccia figure come la cantante Dalida, la reporter Marie Colvin e Tiresia?
Io e Irene Petra Zani, drammaturga dello spettacolo, siamo partite da un interesse per il mondo musicale e per un’icona LGBTQIA+ come Dalida. Volevamo però evitare la forma del biopic classico e quindi abbiamo costruito una figura femminile ibrida, anzitutto accostando Dalida a Marie Colvin, reporter di guerra famosa soprattutto per la benda da pirata che le copriva un occhio perso a causa di un’esplosione. Questa “piratessa“ è stata una delle prime giornaliste ad aver portato alla luce alcune verità scomode del Medio Oriente, e proprio la sua incessante ricerca del vero mi ha suggerito la connessione con la vita di un‘artista come Dalida. Entrambe sono state quasi delle profetesse: hanno visto il destino degli altri più che il proprio, tragico. La vocazione le ha consumate: Colvin è morta sul campo, mentre una celebre canzone di Dalida si intitola Mourir sur scène. Anche Dalida, poi, è stata bendata per un periodo della sua vita per lo strabismo, quindi è emerso l’archetipo di una figura femminile che non vede e – insieme – vede oltre. Per questa via siamo giunte a Tiresia, un personaggio della classicità davvero sui generis, che è stato uomo, donna e animale e la cui chiaroveggenza implica sia la cecità sia l’ibridismo. Nel complesso, mettendo in relazione Dalida, Colvin e Tiresia, abbiamo dato vita a una sorta di Frankenstein al femminile, una reporter che vede nel passato, non riesce a vedere nel presente e però intuisce il futuro.
Dalida fugge dall’Egitto mentre Colvin va verso il Medio Oriente per rimanerci, come se compissero lo stesso viaggio in direzioni opposte. In che modo queste due dimensioni, lo scappare e il restare, sono presenti nello spettacolo?
Dalida è cresciuta in un sobborgo del Cairo ma sognava di andar via per inseguire le luci della Ville Lumière, Parigi. Marie Colvin in Medio Oriente cercava invece una verità sia giornalistica sia, rispondendo alla sua vocazione, esistenziale. Entrambe volevano uscire dalla comfort zone e superare le proprie colonne d’Ercole: potrebbero essere paragonate anche a Ulisse, al suo desiderio di conoscere. Ma un desiderio simile può diventare una droga: non è un caso che le loro vite siano state segnate da sofferenze dipendenti dall’amore verso la propria professione. Entrambe sono state anime votate e “vocate“ alla ricerca del vero: con la musica Dalida ha sublimato le istanze anche emotive della comunità LGBTQIA+; Marie Colvin invece ha documentato la primavera araba in Egitto smentendo le menzogne dei media di Stato, che volevano nascondere la sommossa popolare e le violenze compiute sui civili. Tutte e due, con gli strumenti del giornalismo o dell’arte, sono state testimoni lucidissime della loro epoca.
Nel tuo spettacolo Kassandra avevi già affrontato il mito greco e il topos della preveggenza. Perché, attraverso Tiresia, hai deciso di tornare nuovamente a quest’orizzonte? Senti la necessità di un dialogo con il mondo classico?
La sento soprattutto nei confronti di soggetti ritenuti borderline, che stanno sul confine tra il credibile e l’incredibile, un confine a cui si rivolge anche il mio modo di stare in scena, che intreccia elementi assolutamente veri e altri finzionali. Credo che attingere alla sfera mitica, anche fuori dall’Occidente, sia un’opportunità per potersi confrontare ancora con quel materiale fondativo che l’antico rappresenta. Come Cassandra, anche Tiresia era un personaggio bistrattato e alle cui parole si credeva poco; al contempo, però, era interpellato di continuo in quanto “saggio”. Ma la saggezza si acquisisce proprio oltrepassando i limiti imposti dal sistema. Oggi Cassandra potrebbe essere una senzatetto che decide di vivere ai margini per sfuggire alle regole dominanti. A differenza di Cassandra, poi, Tiresia è anche un personaggio queer ante litteram. Ho voluto lavorare su questo aspetto anche perché mi ha colpito quanto poco sia stato scritto sulla sua fase femminile.
Avendo menzionato la dimensione queer e considerando che Hotel Dalida sarà presentato in anteprima a Lecite Visioni, come pensi che lo spettacolo si inserisca in questa cornice?
Non amo fare distinzioni tra cose che sono queer e cose che non lo sono. Sono una donna lesbica e per me è importantissimo parlare di queste tematiche nei miei spettacoli; ma ne parlo come se fosse la normalità. Dalida è un’icona gay e molte sue canzoni appartengono a quell’immaginario: con Pour ne pas vivre seul è stata la prima, in tempi non sospetti, a cantare la condizione omosessuale e transgender. In una scena dello spettacolo, poi, la protagonista dice di dover uscire dalla stanza d’hotel per poter celebrare il matrimonio di due amiche, con un riferimento che consente anche di fare un confronto tra la situazione dei diritti in Medio Oriente e in Occidente. In generale, però, Hotel Dalida non è una storia di genere o un racconto a tematica gay o queer: è una storia che riguarda tutti, tutte e tutt*.
Il riferimento all’hotel incluso nel titolo evoca sicuramente delle immagini forti: è in una stanza d’albergo che Dalida trovò il corpo senza vita di Luigi Tenco e che, in parallelo, Marie Colvin ha trovato la morte. Perché anche la tua protagonista abita questo non-luogo, in cui è tenuta prigioniera?
Anzitutto, lo spettacolo si intitola Hotel Dalida perché a Tblisi, in Georgia, mi sono imbattuta in un albergo che si chiamava così. Mi ha colpito l’associazione tra un’immagine così sgargiante e un albergo un po’ squallido. Nonostante non si limiti alla storia di Dalida, lo spettacolo ha questo titolo perché volevo mettere in primo piano il riferimento alla cantante, anche rievocando la tragicità dell’episodio con Tenco. Al tempo stesso, visti i riferimenti alla situazione politica del Medio Oriente, la camera d’albergo e la condizione di prigionia della reporter rimandano a storie di tanti altri giornalisti e attiviste rinchiusi, penso su tutti a Cecilia Sala e Patrick Zaki. È come se l’hotel fosse un limbo, un Purgatorio, una zona di passaggio. In effetti, in generale, l’hotel si mostra come un non-luogo cangiante e simbolico, un luogo dell’anima quasi lynchiano, alla Mulholland Drive.
In scena sei da sola e, intrecciando tre figure femminili, dai vita a esperienze diverse. In che modo l’ascolto degli avvenimenti del presente influenza il tuo fare teatro, in un tempo in cui è sempre meno comune dar voce agli altri?
Oggi la realtà sembra aver superato la finzione: come diciamo nella scheda dello spettacolo, ormai “il vero non è più vero” e diventa incredibile, non-credibile. Vorrei che nello spettacolo si sentisse che viviamo in una sorta di sospensione, nel no-where e nel now-here: siamo in Egitto ma potremmo essere ovunque. In Hotel Dalida si racconta il presente direttamente e indirettamente: è ambientato intorno al 2015 e gli avvenimenti odierni sono il futuro di ciò che racconta la reporter. Nella mia ricerca questi legami trasversali nel tempo e nello spazio devono coesistere nel lavoro in scena. Stare sulle tavole del palcoscenico non vuol dire solo narrare una storia già verificatasi: quello che accade, accade contemporaneamente anche per me nel qui e ora della scena. A me piace che il pubblico possa specchiarsi e riconoscersi in quello che vede: il teatro è ormai uno degli ultimi luoghi destinati alla poesia, un luogo in cui le persone si possono incontrare veramente, senza schermi e senza consumare un prodotto. In questo momento di guerra, credo che soltanto la poesia possa ispirare un po’ di pace.
a cura di Giorgia Gazzellini e Mattia Gritti
immagine di copertina: Hotel Dalida, Roberta Lidia De Stefano
L’intervista fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Lecite Visioni 2025