«La scenografia potrà allontanarsi dal realismo quanto l’ambientazione di un balletto drammatico. […] L’interno si fonde con un magnifico giardino che sembra più una giungla tropicale. […] Ci sono strida acute, fruscii sibilanti e rumori sferzanti nel giardino, come se fosse abitato da bestie, serpenti e uccelli, tutti di natura selvaggia…». Così Tennessee Williams delinea il giardino-giungla in cui si svolge Improvvisamente l’estate scorsa, un luogo che sembra essere dotato di vita propria, tanto da produrre continuamente suoni e fruscii, affascinanti e inquietanti allo stesso tempo, situato sul crinale tra realtà e trasfigurazione onirica.
Su questa soglia si colloca il primo incontro tra il regista Stefano Cordella e la scrittura del drammaturgo statunitense. E proprio il potere immaginifico della parola di Williams si rivela essere la chiave di accesso della nuova messinscena di Improvvisamente l’estate scorsa, che ha debuttato in questa stagione del LAC di Lugano (e che avrà una tournée l’anno prossimo tra Fidenza, Genova, Torino, Roma e Saronno). L’opacità della vicenda viene efficacemente restituita dalla scenografia firmata da Guido Buganza: interno ed esterno della casa si confondono, il giardino-giungla incombe sullo spazio scenico calando dal soffitto e ingabbiando così i personaggi, bloccati in un limbo dal quale forse potranno uscire una volta rimessi insieme i frammenti che compongono la realtà degli eventi accaduti “l’estate scorsa”.
L’impossibilità di qualsiasi forma di manipolazione e intervento sul testo di Williams – vista la stringente gestione del diritto d’autore da parte degli eredi, per dichiarata volontà dello scrittore statunitense – porta l’impianto di questo spettacolo a mettere in risalto due nuclei molto interessanti della sua struttura: la relazione tra un evento accaduto e la sua narrazione, e il modo in cui attori e attrici le danno corpo.
In Improvvisamente l’estate scorsa gli eventi vengono ricostruiti attraverso un racconto allusivo ed evocativo che però non oscura la tematizzazione dell’omosessualità di Sebastian, restituita in maniera cristallina dalla traduzione di Monica Capuani. Un trattamento, questo, ben diverso da quanto contraddistinse l’adattamento cinematografico del 1959 di Joseph L. Mankiewicz, dove proprio la sessualità del giovane era stata omessa a causa del severo Codice Hays. La cugina Catherine, interpretata da una straordinaria Leda Kreider – ruolo che le restituisce una meritata rilevanza e visibilità, imprimendosi nella memoria degli spettatori – ancora sotto shock per ciò che ha visto, viene sottoposta alla visita del dottor Sugar (interpretato da un misurato e affabulatorio Edoardo Ribatto). La figura di Sebastian e i fatti relativi alla sua morte vengono veicolati dagli sguardi opposti e complementari della cugina e della madre Violet, restituita in scena con estrema efficacia nel suo contegno sdegnoso da Laura Marinoni. La narrazione di Catherine viene continuamente screditata e interrotta da Miss Violet, da sua madre (Elena Callegari) e da suo fratello – interpretato da Ion Donà, di sicura e incisiva presenza scenica (qui alla sua prima vera prova attoriale dopo il diploma alla scuola del Piccolo Teatro). All’improvviso, però, Catherine viene sopraffatta dall’orrore che ha provato assistendo alla morte di suo cugino, dilaniato dalla famelica, spietata e povera banda di bambini e ragazzini della zona, e al precipitare degli eventi: «non sono stata capace di impedire alla tela di – disfarsi… l’ho vista disfarsi, ma non ho potuto metterla in salvo o – ripararla!». Il ritmo della narrazione si fa sempre più concitato e ciò a cui assistiamo ha i caratteri di una meravigliosa e inquietante trasformazione, il corpo di Kreider incarna il terrore di cui si fa voce e presenza, che lo anima e lo trasporta all’interno di questa visione. Sembrano pensate per raccontare proprio questo momento le parole che il professore Armando Petrini usa per descrivere la potenza dell’attore sulla scena in un articolo recentemente pubblicato su «La Falena»: «L’attore è tanto più interessante (e artisticamente stimolante) quanto più riesce a far accadere effettivamente il teatro: lì, sul palcoscenico, in quel momento, di fronte al pubblico. […] Il teatro accade – se accade – non perché lo si è deciso prima (non basta andare a teatro perché il teatro accada) ma soltanto quando il gesto di chi recita con-muove, muove insieme gli attori e il pubblico verso un’esperienza concreta – e perciò vera – di ciò che sta avvenendo in quel momento in scena». Ed è proprio questo accadimento che Kreider riesce a generare in sala, mozzando il respiro di chi la osserva e l’ascolta, impedendo di distogliere lo sguardo dal suo corpo ondeggiante sul palcoscenico, visualizzando quasi per la prima volta il vestito rosso sangue, che pare quasi coloratosi improvvisamente in consonanza con la brutalità del racconto.
L’impianto registico riesce a trasformare la scena in uno spazio-memoria giocato sulla capacità della parola di governare la scansione degli eventi attraverso un tempo giocato quasi totalmente sul dire piuttosto che sull’agire, riuscendo a creare negli spettatori uno stato di sospensione. Cordella, qui, non cerca di sovrascrivere, ma piuttosto agisce in sottrazione e in scavo del testo; anche se si può avere l’illusoria impressione – come accade in alcuni spettacoli di Massimiliano Civica – che la mano registica sia invisibile, quasi assente, essa agisce in realtà in profondità, lasciando affiorare in superficie le traiettorie di senso e di incontro tra i personaggi.
Il percorso di Stefano Cordella, dopo una fase orientata al lavoro di compagnia, insieme al gruppo Oyes, da lui co-fondato, si è indirizzato verso un percorso registico più autonomo, ed è giunto qui a una tappa cruciale, segnata dalla presenza di un parterre produttivo notevole e decisamente istituzionale (LAC e Teatro Carcano). Un interessante e significativo giro di boa segnato da una scelta: Cordella qui lavora non tanto sul trovare un proprio spazio personale all’interno del testo, quanto piuttosto sul cedere spazio, sul creare le condizioni necessarie affinché siano la voce attoriale, e la presenza fisica dell’attore sulla scena, il viatico della narrazione, capace di restituire la drammaticità del conflitto tra due donne, tra due generazioni, la violenza della strumentalizzazione di una donna, usata affinché un uomo possa adescare dei giovani, l’attraversamento dell’orrore, del confronto con la brutalità e l’impossibilità di rimuoverla.
Alice Strazzi
in copertina: foto di Luca Del Pia
di Tennessee Williams
traduzione Monica Capuani
regia Stefano Cordella
con (in ordine alfabetico) Elena Callegari, Ion Donà, Leda Kreider, Laura Marinoni, Edoardo Ribatto
scene Guido Buganza
costumi Ilaria Ariemme
disegno luci Marzio Picchetti
suono Gianluca Agostini
aiuto regia Noemi Radice
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano
Improvvisamente l’estate scorsa viene presentato per gentile concessione della University of the South, Sewanee, Tennessee