Nell’ambito del laboratorio di visione e critica organizzato a margine della rassegna Invito di Sosta, abbiamo incontrato Giorgio Rossi, co-direttore della Compagnia Sosta Palmizi insieme a Raffaella Giordano.

Ci piacerebbe parlare insieme del grande lavoro che Sosta Palmizi sta facendo per dare spazio alle nuove generazioni. Fino a quando si è giovani in Italia?
Io lo sono stato fino a qualche mese fa: sono sempre stato un “emergente in emergenza”! Quanto all’attività di Sosta Palmizi, cerchiamo di aiutare gli under 35 ma anche gli over 30, gli over 40… Non esistono solo gli “under”! Stiamo provando a costruire una comunità di relazioni e, insieme, cerchiamo dei percorsi da seguire. Facciamo quello che possiamo: ma ci impegniamo, e lavoriamo insieme. Una delle difficoltà più grandi che i giovani danzatori e coreografi oggi affrontano è costruirsi: costruirsi un’identità ma anche un repertorio. Questo accade perché il sistema non lo permette: l’Italia è il paese dei debutti e mai delle conferme, dove tutti sono interessati allo spettacolo di un giovane se ancora deve essere visto, ma dove nessuno concede seconde o terze possibilità. Gli spettacoli inoltre devono andare in scena più volte, mentre l’impressione è che oggi una coreografia che ha debuttato sia già da buttare. Ogni anno a un artista è imposta una nuova creazione, ma è chiaro che questo tasso di produttività non è realistico – e, nel frattempo, quante cose interessanti che ci si perde, che ci si lascia scappare!

L’impressione è che alla fine venga sempre demandato al singolo il compito di risolvere la falla del sistema; che ognuno debba reagire alle difficoltà con il sacrificio e la fantasia, escogitando soluzioni individuali.
Quello che dici purtroppo è vero. L’Italia è fatta a isole, è fatta di oasi felici e di illusioni. Per esempio è un’illusione produrre tantissimi spettacoli brevi, magari assoli di 15 minuti, di giovani coreografi: il sostegno a lavori di questo tipo è uno specchietto per le allodole. Il lavoro viene considerato finito e non hanno spesso la possibilità di mostrare al pubblico la versione integrale e approfondita della creazione. Sosta Palmizi invece cerca di fornire loro i mezzi per portare a termine la creazione, attraverso la possibilità concreta di approfondire la coreografia, fare allestimento tecnico e un solido supporto con la promozione.

Quali sono allora i modi per scardinare il sistema?
Bisogna fare. Per esempio provando a lavorare su più livelli: io e Raffaella (Giordano, ndr) da trent’anni lavoriamo non solo con la danza ma anche con la musica, la letteratura, il cinema, la poesia; lavoriamo con bambini, ragazzi, anziani; collaboriamo ogni volta che possiamo con i registi, o con altri colleghi. Ci arrangiamo, ma alla fine facciamo molte cose. Va però detto che alcune regioni sanno come comportarsi: in Toscana, per esempio, le cose funzionano meglio perché le leggi che garantiscono i finanziamenti sono modellate sulle capacità delle singole realtà. Questo permette l’esistenza – secondo modalità del tutto differenti – tanto a noi di Sosta Palmizi quanto, contemporaneamente, a realtà molto diverse. In effetti, però, è vero quello che dicevamo prima: ognuno di noi si rimodella e crea una sua oasi, una stazione segreta e sotterranea che sa andare avanti.

Ci racconteresti come funziona il sistema degli artisti associati di Sosta Palmizi?
Diciamo che Sosta non è un luogo in cui produciamo solo i nostri lavori, ma un ambito in cui anche altri trovano la porta aperta. Per esempio, chi manda avanti tutto ora non siamo io e Raffaella, ma sono i giovani. La cosa interessante è che il meccanismo di associazione fa parte di Sosta da sempre, non è caratteristica solo del presente. Sosta è un’associazione di artisti fin dalla sua fondazione. Già l’anno successivo al debutto del Cortile, Francesca Bertolli presentò il suo primo assolo, poi fece così anche Raffaella; allo stesso modo io, Roberto (Castello, ndr) e Michele (Abbondanza, ndr) presentammo alcuni nostri lavori come singoli. Ci siamo incorporati e scorporati nel tempo, abbiamo sempre lavorato così. Del resto, a insegnarcelo fu Carolyn Carlson: noi danzatori non eravamo il suo braccio armato chiamato a eseguire comandi e ordini, ma la sua ispirazione. È lo stesso processo che ho avuto modo di sperimentare con Pina Bausch, quando ho avuto l’opportunità di assistere alle prove delle sue creazioni: ogni danzatore sul palco dava la propria personale risposta alle domande che lei poneva.
Quanto a oggi, i nostri artisti associati non sono scritturati – cioè noi non commissioniamo loro una coreografia, per poi pagarli e interrompere così il rapporto. Da noi gli artisti vengono, noi li osserviamo, diamo il via a una sorta di tutoraggio, lavoriamo insieme e capiamo dove potrebbero distribuire i loro lavori. Chiaramente noi forniamo loro gli spazi, e offriamo una collaborazione organizzativa, amministrativa, promozionale: siamo un flusso di informazioni e un sostegno burocratico. Tutto questo permette due cose: da un lato, non è necessario che gli artisti producano ogni anno qualcosa di nuovo; dall’altro lato, questo meccanismo permette loro di instaurare nuovi legami. Per esempio, alcuni dei nostri artisti associati si uniscono per dare vita a progetti singoli che poi realizzano altrove: si può trattare infatti di creazioni più distanti dagli obiettivi e dalle capacità di Sosta, ma così nascono nuove cose – che è poi l’obiettivo più grande. Gli artisti non sono vincolati a noi, ma in noi trovano assistenza e cooperazione. In generale, nel rapporto con gli artisti tutto è molto soggettivo: non c’è una regola, tutto si stabilisce a seconda delle necessità di ciascuno.

Parliamo del lavoro col territorio. L’impressione è che un altro modo per scardinare il sistema non stia solo nel lavoro di produzione e programmazione ma anche e soprattutto nel lavoro col pubblico.
Certamente: noi per esempio abbiamo scommesso su questo aspetto e dato vita a tantissimi progetti. Questo laboratorio per giovani critici ne è un esempio, ma ce ne sono anche molti altri: partecipiamo al bando L’Italia dei Visionari, grazie al quale un gruppo di spettatori seleziona uno o più titoli della nostra programmazione, collaborando con la propria specificità alla creazione del cartellone; e sempre più successo hanno i nostri dibattiti a fine spettacolo, durante i quali gli artisti dialogano con gli spettatori sul proprio lavoro, senza mediazioni o filtri. Il nostro pubblico piano piano si sta affezionando e inizia a seguire le nostre attività con costanza. Chi viene agli spettacoli spesso frequenta anche le masterclass dei coreografi, oppure – per fare un esempio – partecipa a Incamminarsi: il progetto grazie al quale, una domenica al mese, ci troviamo dalle 10 alle 17 e facciamo – insieme a sei insegnanti, tra i quali anch’io e Raffaella – un percorso sul movimento aperto a tutti, soprattutto a chi magari non lo ha mai fatto o è poco abituato a muovere e conoscere il proprio corpo. Col tempo abbiamo visto che le iniziative funzionano: il pubblico aumenta, ma soprattutto aumenta la qualità di questo pubblico: gli spettatori sono attenti, interessati, concentrati. In questo modo crediamo che seguire la danza possa diventare una passione, una scelta, una militanza.

Virginia Magnaghi


Contenuto pubblicato nell’ambito del workshop di scrittura critica a cura di Stratagemmi e Teatro e Critica, in occasione di Invito di Sosta 2019, rassegna curata dall’Associazione Sosta Palmizi.