di Mimmo Borrelli

visto al Crt di Milano _ 24-29 febbraio 2012

La madre che dà la vita e la morte. La madre che rinnega e ricatta. La madre che sopravvive ai figli. La natura che si rivolta, si torce e si deforma. L’amore stuprato, inquinato, ucciso. Tutto in una storia, tutto in uno spettacolo. È La madre, terza folgorante opera di Mimmo Borrelli. Se ne parla tanto di questo ragazzo con la barba nera e folta e lo sguardo fiero, poco più che trentenne e già due volte premio Riccione per la drammaturgia. Se ne parla ed è un bene: il suo lavoro merita tutta l’attenzione possibile.
Da Torregaveta, Campania profonda, ha risalito l’Italia con il suo grido, una lingua contaminata dal dialetto flegreo, una musica arcaica deformata da innesti che vanno dal gergo camorristico a commoventi invenzioni liriche. Una lingua che è piena di luci e ombre, come la terra di zolfo e acque ferme da cui l’autore proviene. Un incredibile incantesimo per la scena.

La storia è quella di Maria Sibilla Ascione, moglie popolana del boss Francesco Schiavone (lo stesso Borrelli: forte, sprezzante, mai impaurito dal suo personaggio: bravo, anche in questo caso) detto Sandokanne, e figlia di un camorrista. Il suo destino è segnato dalle usanze del padre, proprietario terriero che faceva crescere pomodori arricchiti dai rifiuti tossici. La vicenda, ha raccontato Borrelli, è vera. Un contadino delle sue parti coltivava ortaggi pompati con gli estrogeni: in parte li mangiavano in famiglia e sua figlia di sei anni, mentre era in gita scolastica nell’antro della Sibilla cumana, ebbe le mestruazioni. Proprio come la Sibilla-Medea della storia, una superba Milva Mirigliano increspata nel viso di matta e nel corpo grosso e ferito, da matrona spodestata e che porta su di sé il peso di tutte le donne reiette, nate per non essere madri. Le fa da alter ego la giovane slava salvata dagli aguzzini-papponi che le impongono la violenza del sesso fatto per i soldi. È ancora innocente, può salvarsi, può essere madre, lei sì. Per lei c’è speranza (forse).
Per Medea, no. Rinchiusa in un bunker-utero, prigione di vent’anni di soprusi, violenze, mancanze e rimpianti, la donna-fiera ha cresciuto due figli a fiati di vino. Sono diventati dementi: uno in preda a crisi mistiche perenni, l’altro erotomane solitario o in compagnia di qualsiasi sesso femminile gli passi accanto (bravi, divertiti, mai eccessivi gli attori). Due mostri, ma anche di innocenza. Pure in questo caso si tratta di una leggenda del popolo, dice il drammaturgo: a Bacoli, nei pressi di Torregaveta, c’era una donna che durante la gravidanza non ha mai smesso di bere e quando è nato suo figlio, credendo di non poterlo allattare al seno, gli ha dato il vino. Sono i sussulti di una terra che sprofonda, che si autoinghiotte, tra bottiglie di liquidi incerti, letame e ferro arrugginito, resi dalla scenografia con forza e timore.

La bellezza antica di questo spettacolo sta nella semplicità con cui Borrelli riesce a riallineare gli ingredienti della tragedia, illuminandoli della loro umanità e disumanità, in quell’anelito all’onnipotenza che ispira l’uomo e lo spinge oltre, dai coloni greci che affrontarono il mare sconosciuto per fondare Cuma, ai camorristi di oggi che vogliono domare la terra ammazzandola di scorie tossiche. La lingua si fa carne per raccontare un destino di distruzione, morte e tradimenti, che termina con una madre abbandonata ai suoi gatti di strada e il marito in carcere. E i figli? Per Borelli non c’è assoluzione, nemmeno per loro. Decaduto l’inno eduardiano alla concordia, quello che fa urlare a Filumena Marturano: «’E figlie so’ figlie!», ora «’I figlie so’ piezze ‘i sfaccimma (sottotitolo dello spettacolo)». Pezzi di sperma, pezzi di niente.

Francesca Gambarini