«Le persone, non i monumenti, sono i luoghi della memoria». Ad affermarlo è il berlinese Jochen Gerz, uno dei principali esponenti della public art, termine sotto cui – a partire dagli anni sessanta – sono state etichettate le più svariate proposte artistiche che miravano a inserirsi nel tessuto sociale attraverso incursioni nella struttura urbana, a diretto contatto con la comunità.
Nonostante le apparenze, quella di Gerz nei confronti dei monumenti non è un’accusa né una condanna (anche perché, se così fosse, investirebbe le sue stesse creazioni), ma piuttosto il naturale epilogo della risemantizzazione a cui sottopone il concetto di arte pubblica: non basta collocare opere d’arte in spazi aperti e relativamente accessibili, se non si innesca un’interazione coi cittadini che travalichi la mera contemplazione di installazioni urbane, per approdare all’ “attivazione” del pubblico.
Paradigmatico in tal senso è Il Monumento di Harburg contro il Fascismo, realizzato tra il 1986 e il 1993, in un quartiere di Amburgo: Gerz fa montare su una passerella pedonale una colonna a base quadrata, alta circa 12 metri, rivestita di piombo e dotata di uno stilo appuntito che invita i cittadini a inciderla, apponendo la propria firma o una considerazione personale. Man mano che la parte più accessibile si satura, il monumento viene sprofondato nel terreno per qualche centimetro, in modo da offrire una nuova superficie scrittoria, fino a quando scompare completamente nel sottosuolo.
Qual è, allora, il senso di un’opera dal carattere effimero, almeno sotto il profilo puramente materiale? La risposta risiede nella supremazia che Gerz attribuisce al processo creativo: il monumento diviene invisibile, così come il suo artefice si eclissa dopo l’input iniziale, limitandosi al coordinamento dell’operazione per lasciare emergere la voce collettiva. I cittadini agiscono da attori-protagonisti perché compiono più del gesto meccanico di incisione: per decidere di portare il proprio pensiero privato in un contesto pubblico si sono interrogati e hanno rielaborato grandi questioni politico-sociali. Questa presa di coscienza civica non è forse un atto politico? Come ricorda la targa con cui Gerz sigilla la sua opera, «alla fine soltanto noi stessi restiamo in piedi contro l’ingiustizia».
Seguendo questa direttrice, più o meno negli stessi anni, da Amburgo ci si sposta a Saarbrücken. Tra il 1990 e il 1993 Gerz coinvolge alcuni studenti della città per rimuovere – dapprima clandestinamente, poi con l’avallo delle istituzioni – le pietre che lastricano la piazza dove ha sede il parlamento provinciale. Grazie alla compilazione effettuata da 61 comunità ebree tedesche, ciascuna pietra viene incisa con il nome di un cimitero ebraico distrutto dai nazisti e poi ricollocata al proprio posto con la scritta nascosta, rivolta verso il basso. Solo la comunicazione, il passa parola, l’agire umano permetteranno di portare alla luce il progetto Pietre. Monumento contro il razzismo, tanto incisivo da rinominare la piazza del Castello in “Piazza del Monumento Invisibile”: «L’invisibilità del monumento è pensata in forma di cura: se devi rappresentare l’assenza, devi creare l’assenza; e quella assenza permette alle persone di creare il proprio memoriale», commenta Gerz.
Ancora una volta il meccanismo per il quale si nasconde la propria creazione valorizza l’interazione consapevole tra sfera privata e pubblica, attraverso una fruizione condivisa che può costituire un primo passo per rafforzare i legami di una comunità e affrontare insieme le questioni sociali irrisolte.
Nadia Brigandì
foto in copertina: © Jochen Gerz
Questo contenuto fa parte dell’osservatorio critico Raccontare le Alleanze