Nel pieno del 2021 ci troviamo in un’epoca di complicata applicazione del “diritto alla città”, almeno per come lo espresse Henri Lefebvre nel suo celebre scritto omonimo: oltre alla mercificazione degli spazi urbani che da anni limita il diritto di appropriazione e creazione dal basso di luoghi che rispondano alle esigenze della collettività, inizia a farsi strada l’idea che lo spazio pubblico possa non essere più solo reale, ma anche virtuale. Una questione che apre la porta a innumerevoli domande etiche, economiche, politiche, e che, in maggiore o minore grado, attraverso la reclusione pandemica sono già sotto gli occhi di tutti: in un periodo in cui speranze e utopie sul futuro imminente hanno perlopiù preso la forma di un variegato “desiderio di uscita”, è quasi fisiologico ricominciare a porsi la questione di come “il fuori” debba essere. E mentre, fino a questo momento, siamo stati il più delle volte spettatori passivi di politiche culturali e sociali imposte dall’alto, vale la pena ora iniziare a considerare e prendere in esame con maggior attenzione quelle pratiche di riappropriazione dei contesti urbani che si sviluppano dal “basso”.

Leszek Kolakowski e Henri Lefebvre, 1971 (foto: CC BY-SA 3.0 nl)

Tra queste spicca, specialmente per il suo legame strettissimo con la città di Milano, la Mazurka Klandestina: nata nel 2008 e faticosamente sopravvissuta ai lockdown, l’iniziativa prende piede quando un gruppo di appassionati di danze popolari francesi, ispirati dal fenomeno del Tango Illegal, si diede appuntamento in Piazza Affari attraverso una mailing list per ballare tutta la notte. Nel suo saggio Utopie “klandestine” – l’intimità della danza per fruire in modo nuovo della città e del tempo libero l’etnografa Valentina Beccarini analizza il fenomeno dimostrando come un esperimento di trasformazione di vie e piazze in piste da ballo, fatto di svago svincolato dai circuiti commerciali, alimentato dall’utilizzo di mezzi virtuali di coinvolgimento, non sia da intendere come una forma di utopia, bensì come un’ «eterotopia» (per dirla con Foucault), un’utopia localizzata, un luogo aperto in cui vengono sovvertiti gli obblighi spaziali che condizionano le nostre vite.

La Mazurka Klandestina in Galleria Vittorio Emanuele a Milano (Video: Tommaso Torti)

La Mazurka Klandestina è per suo statuto – concepito collettivamente, in modo acefalo – un’azione poetica il cui senso risiede nella temporaneità e nella clandestinità. Beccarini spiega chiaramente cosa significhino questi due aspetti: la clandestinità, che si rispecchia concretamente nell’organizzare le notti di danza senza chiedere permessi amministrativi, e lasciando gli spazi intonsi dopo il loro utilizzo, rappresenta la necessità di muoversi negli interstizi lasciati liberi dal “potere” per evitare di replicarlo in modo opprimente, per dimostrare in ottica umanitaria di essere in grado di gestire la propria libertà; la temporaneità, invece, è legata strettamente alle possibilità di sopravvivenza della clandestinità, che deve essere inevitabilmente limitata nel tempo prima di essere “scoperta” e schiacciata dalle istituzioni. Per spiegare questa esperienza di intensità limitata nel tempo, ma che può dare forma a una vita intera, l’autrice del saggio riporta le parole di una ballerina di Mazurka Klandestina: «[…] è come essere dentro un contenitore, una cornice in cui è lecito sperimentare senza sentirsi giudicati o fraintesi. E ciò che si vede al di fuori, per chi resta a guardare, è forse sì, una danza effimera, magari anche dolorosa per la sua precarietà, ma una danza piena di senso, di verità, di significato, molto più che in una qualsiasi coreografia tecnica messa su a tavolino per una performance da palcoscenico».
Essendo chiaramente Mazurka Klandestina un’eterotopia più vissuta a livello pragmatico e corporeo, che condivisa ideologicamente, ed essendo la mazurka stessa una danza popolare di origine ambigua che si presta a molte varianti e declinazioni, è dunque utile per ricordare che i percorsi di ridefinizione del “fuori”, parafrasando la studiosa Federica Castelli (Lo spazio pubblico, Ediesse, 2019), non possono fare a meno della dimensione fisica e materiale dello spazio pubblico, e soprattutto della consapevolezza che esso non è solo percorso da opinioni e idee, ma anche da corpi e sensazioni.

Anna Farina

Foto di copertina: © Diego Cantore


Questo contenuto fa parte dell’osservatorio critico Raccontare le Alleanze