Di Stefano Massini
Regia di Luca Ronconi
Visto al Piccolo Teatro Grassi Di Milano _ 29 gennaio-15 marzo 2015
Quando si sente il nome ‘Lehman’ la prima cosa che viene in mente è un crack di proporzioni epiche: più di seicento miliardi di dollari di debiti, attività chiuse, investimenti andati in fumo, proprietà messe in svendita. Una cifra e uno scenario difficili da concepire, almeno razionalmente. Si tratta della caduta di un gigante, invincibile, potentissimo: un Golia che frana su se stesso senza bisogno di alcuna fionda, una torre di Babele che implode sotto il peso della propria imponenza. Immaginifico nella sua rovina, chissà cosa doveva essere prima “l’impero Lehman”? Come si saranno svolte le mirabolanti imprese che ne hanno accompagnato l’edificazione? Quali tappe ne avranno scandito la storia?
Si potrebbe pensare che Luca Ronconi e Stefano Massini, autore e drammaturgo del testo, abbiano cominciato da qui, dal principio, nel cesellare la lunga narrazione di Lehman Trilogy. Lo spettacolo si apre infatti sull’arrivo di Henry, capostipite della futura dinastia di banchieri, nel nuovo continente: il seme è gettato e presto darà frutti, prolificherà rigoglioso nella terra promessa del capitalismo. Le cinque ore che seguiranno – tanto dura lo spettacolo se visto in una delle rare filate in programmazione – non saranno nient’altro che la cronistoria delle gesta di una famiglia ebraica trapiantata dalla Baviera in Alabama, la saga trans-generazionale di un sogno a stelle e strisce senza lieto fine.
“Non sono d’accordo!” Esclamerebbe a questo punto, senza esitazione, Herbert Lehman a cui Ronconi, come a quasi tutti i personaggi dello spettacolo affida formule e caratteristiche fisse, fortemente riconoscibili, ma non per questo meno eloquenti. Già perché come l’ostinata battuta di Herbert potrebbe apparire sempre uguale a se stessa e invece si colora di nuove possibilità interpretative a seconda del contesto in cui è collocata, così lo spettacolo di Ronconi si smarca dall’etichetta di semplice, funzionale, resoconto per diventare rappresentazione di una dimensione onirica, pluri-significante, profetica. Ce lo rivela innanzitutto il tempo: per quanto la storia sembri muoversi lungo un asse cronologico normale (qualcuno ha ricordato il piano inclinato della Celestina), ciò che sappiamo fin dal principio, da quando vediamo roteare vorticosamente “l’orologio in ferro e ghisa” sul molo dove è sbarcato Henry, è che in realtà nello spettacolo di Ronconi il tempo non esiste. I personaggi che muoiono rimangono sul palcoscenico (come accadeva nel Panico di Spregelburd), tornano, parlano, cantano blues, fanno perfino dell’ironia. La storia dei Lehman abbandona la cronaca e si fa parabola: l’allontanamento della famiglia dai costumi, dai precetti religiosi (“Non sono d’accordo!” si permette a un certo punto Herbert perfino ai dettami del rabbino), dalle tradizioni delle proprie origini diventa un tradimento identitario che verrà punito inesorabilmente.
Ronconi e Massini prendono una materia in un certo senso grezza, un monolite inerte, e la lavorano, riuscendo a sprigionare dalle sue fredde venature una vividità rara, capace di sorprendere l’immaginario, di divertire, di suscitare ammirazione. “Fortuna? No. Tecnica.” Chioserebbe un altro Lehman, Philip. Quella dei due demiurghi di testo e regia, certo, ma anche quella di un intero cast in grado di restituire con meticolosa precisione i chiaroscuri espressivi, perfetto nel conferire il fascino tagliente di battute e situazioni, non certo di immediata o facile presa. È un piacere allora vedere Massimo Popolizio e Fabrizio Gifuni battagliare a colpi di bravura e conquistarsi il plauso del pubblico: irresistibile e sornione il Mayer Bulbe (la patata) del primo, quanto perfettamente caratterizzato nelle molteplici sfumature della sua rigidità l’Emanuel (il braccio) del secondo. Menzione speciale anche per Paolo Pierobon (stoico nell’andare in scena al debutto nonostante un problema alla schiena) e per Fausto Cabra chiamati entrambi a sostenere il peso della seconda parte di spettacolo, quella strutturalmente più fragile.
Se, fino a pochi giorni fa, chiudere la recensione affermando che “Lehman Trilogy rappresentava la summa migliore del teatro ronconiano degli ultimi tempi” non avrebbe suscitato particolari sospetti di retorica, ora che lo spettacolo è diventato, suo malgrado, l’ultimo lascito del regista di Susa è praticamente impossibile non generarli. Eppure è proprio così. La trilogia dei Lehman racchiude in un certo senso Ronconi tutto, in una forma che così smagliante non si vedeva probabilmente dai tempi del Professor Bernhardi. Più che come un epitaffio sarebbe quindi giusto guardare allo spettacolo per quello che è: un’opera riuscita, consapevolmente ambiziosa, ostica per argomento, per durata e modalità espressive, eppure estremamente godibile, intelligente, coraggiosa e appagante al tempo stesso. Qualità queste che tutte insieme non sono facili da radunare sulle assi di un palcoscenico. Non lo erano nemmeno prima di sabato scorso, quando Ronconi è scomparso, ma da allora, ne sono convinto, c’è una voce in meno in grado di richiamarle a sé con la stessa autorevole, ferrea e trasognante, dedizione.
Corrado Rovida