Chiunque si definisca dramaturg ha una diversa concezione del proprio ruolo, usa strumenti differenti e, soprattutto, agisce in contesti che spesso eludono una chiara delimitazione.

Una dramaturg che sicuramente si muove in maniera fluida tra molti e diversi campi è Maja Hriešik. La sua biografia si sposta continuamente tra terre in fermento politico: nata a Novi Sad in Serbia (ma allora Jugoslavia), si trasferisce alla fine degli anni ‘90 nella neo-indipendente Slovacchia per conseguire la laurea magistrale in Estetica, Regia Teatrale e Drammaturgia. Hriešik lavora inizialmente come performer, per poi occuparsi sempre di più della curatela di festival, convegni internazionali e workshop per artisti emergenti. Il panorama politico-culturale è in fermento, i fondi sono pochi, gli attivisti sono molti: da tutto ciò nascono una rivista di danza, Salto, e un programma radio che ospita le voci degli attivisti slovacchi. Hriešik è al centro di questi progetti come caporedattrice e conduttrice.

Nel gennaio 2016, in un periodo di subbuglio sociale su vasta scala, un governatore regionale di estrema destra definisce l’arte contemporanea una “forma d’arte decadente”, dando così il pretesto che unisce definitivamente la comunità della danza slovacca: viene creata la prima piattaforma nazionale PLaST, di cui Hriešik è cofondatrice e organizzatrice. Dal 2020 PLaST gestisce uno spazio comune, Telocvičňa.

Maja Hriešik ha recentemente preso parte al progetto europeo di ricerca e formazione Micro and Macro Dramaturgies in Dance come parte del team curatoriale insieme a Guy Cools, Katalin Trencsényi, Anne-Marije van den Bersselaar e Alexis Vassiliou, e ha partecipato al simposio sulla drammaturgia della danza organizzato da Anghiari Dance Hub nell’ottobre 2022. In questa occasione l’abbiamo incontrata e abbiamo discusso sull’inafferrabile natura del dramaturg. Il dialogo che segue scaturisce da questi incontri e da riflessioni sui suoi scritti.

foto dall’archivio di TELOCVIČŇA Rezidenčné Centrum pre Tanec, la palestra a Bratislava convertita bottom up in sala danza da PLaST

Nel corso della tua carriera hai inteso la posizione di dramaturg come un ponte tra soggetti provenienti da realtà diverse: il mondo dell’attivismo, quello universitario, ma soprattutto il panorama degli artisti e delle associazioni di danza non affermate. Quali strumenti e strategie hai messo in campo di volta in volta per stabilire un dialogo e creare reti?

La drammaturgia è una pratica relazionale e molto fluida, dialogica nella sua sostanza: creare ponti tra persone o tra modi di vedere ne è una conseguenza naturale. Si tratta fondamentalmente di creare collegamenti – che sia tra materiali, significati, o collaboratori. La drammaturgia è anche traduzione: nel campo artistico si tratta di traduzione dal corporeo al verbale o dal macro al micro e viceversa, ma la stessa metodologia può facilmente diventare un ponte per collegare fronti opposti e conflittuali dello stesso settore. Nel campo dell’arte vediamo spesso gli artisti scegliere di lavorare da soli, di diventare isole, perché si tratta di un settore per sua natura denso di emozioni e preferenze personali – come pure di frustrazioni. In un contesto di crisi e di condizioni di lavoro precarie, tuttavia, creare ponti diventa una necessità per tutti: la disponibilità alla condivisione e all’interconnessione rafforza il settore, assicura la sostenibilità e la continuità della cultura. 

Creare questi ponti in Slovacchia, in una scena piccola e poco affermata (o poco riconosciuta), obbliga a confrontarsi con una instabilità costante poiché le politiche culturali e le decisioni istituzionali non supportano gli sviluppi a lungo termine. Con il mio lavoro organizzativo mi impegno a salvaguardare la conoscenza che già esiste e a stimolare qualsiasi continuità possibile.

Ovviamente a volte mi sento frustrata e stanca per la costante necessità di impegnarmi a negoziare le condizioni o a garantire l’esistenza di reti, invece di dedicarmi semplicemente alla creazione dei miei progetti artistici. Ma devo anche ammettere che l’impegno nella realizzazione di network ha arricchito la mia pratica drammaturgica in quello che poi è il campo prettamente artistico. Quindi ciò che accade non è tanto l’applicazione di strumenti drammaturgici al più ampio contesto socio-culturale, quanto piuttosto il contrario. Esperienze disparate come la facilitazione, la protesta, la promozione, la negoziazione, l’intrusione sensibilizzano la mia capacità di ascoltare voci diverse e di rispondere a varie situazioni anche all’interno della produzione artistica. Bisogna stare attenti, infatti, a non rimanere bloccati durante la creazione per scarsa capacità di ascolto! Applicando uno sguardo più ampio, è altrettanto facile notare che, in maniera simile, la sfera artistica in generale (e in particolare quella relativa alla danza) ha la tendenza a restare distaccata e chiusa nella propria bolla. È per evitare che questo accada, sia nella sfera micro della creazione in sala prove, sia in quella macro del panorama della danza, che devono essere messe in atto strategie di traduzione, collegamento e creazione di ponti dialogici. 

Come professoressa universitaria alla VŠMU (Accademia di Performing Arts di Bratislava), insegni Storia della Danza, Drammaturgia Pratica, Estetica della Danza, oltre a tenere diversi seminari. Nel 2017 hai pubblicato un saggio sull’applicazione di strutture drammaturgiche all’interno dell’ambiente universitario, Rooting the Unrooted. In questo scritto parli di come portare gli studenti, a partire dalla tua posizione di docente, a unire la teoria (la contestualizzazione) alla pratica somatica (embodiment), per poter diventare artisti più consapevoli e radicati. Qui un passaggio:

Contestualizzazione e embodiment sono due forze opposte nella pratica della danza […]. Quindi da un lato c’è il contesto più ampio, la conoscenza, la storia – che devo scoprire io per gli studenti (in qualità di docente, ndr) –, ma che tuttavia, nei miei corsi, vanno ad essere interiorizzate concretamente nel loro corpo attraverso un processo drammaturgico. La “drammaturgia” qui è intesa come una sorta di processo di filtraggio personalizzato, di selezione e valutazione individuale. È per questo che sollecito in loro un lavoro di dramaturgical embodiment, un processo di concretizzazione – che mira a calare l’universale (storia, tecniche, repertorio conosciuto) nel personale (corpo concreto).

Questa connessione tra teoria e pratica appare fondamentale per una crescita consapevole degli artisti. Puoi condividere i processi drammaturgici che attivi con i singoli studenti affinché possano applicare questo processo di dramaturgical embodiment? Proponi corsi pratici, con esercizi fisici per esempio?

L’approccio tramite esperienze corporee e pratiche è il più immediato ed evidente. Il saggio che hai citato è stato scritto dopo cinque anni di insegnamento accademico, quando ho sentito l’esigenza di contaminare i corsi più teorici che conducevo con quelle esperienze attive che rendevano gli studenti molto più attivi e interessati. Volevo incoraggiare un simile lavoro di contatto con il proprio corpo e con le storie personali, per sbloccare una partecipazione più coinvolta alle lezioni e far sì che il “macro” (i contenuti teorici) fosse al servizio del “micro” (i desideri o i dubbi dei partecipanti). Volevo aiutarli a fare i conti con eventuali traumi passati e a compiere scelte per il futuro. I giovani danzatori che arrivano in accademia sono infatti eccellenti nel reprimere le pulsioni e i desideri personali, mettendo a tacere i dubbi o le domande: questo è purtroppo un effetto collaterale dell’intenso allenamento fisico che ricevono fin da piccoli e che privilegia il senso della disciplina.

Per tutti questi motivi ho iniziato lentamente a contaminare tutti i miei corsi con la metodologia drammaturgica. Ora sottolineo la necessità delle letture indipendenti, della messa in dubbio e della contestualizzazione nella trattazione di qualsiasi questione, sia nel campo dell’estetica sia in quello della storia della danza. Per innescare la formulazione di idee e opinioni proprie, ho introdotto esercizi di scrittura e discussioni critiche su vari argomenti: cosa è percepito come “elevato” o come “basso” nella danza contemporanea; che valore essa ricopre nella società attuale; quali sono le condizioni sociali, culturali ed economiche dell’artista professionista; la sostenibilità dei processi, e così via.

Il biglietto da visita di Telocvičňa, che include dei semi da piantare

Sei molto spesso in contatto con artisti della danza slovacchi non affermati, sia per la creazione di network, sia per i percorsi post-universitari dei tuoi studenti: per questo motivo, conosci le difficoltà relative alla sostenibilità lavorativa. È quanto affermi in un tuo recente saggio, che hai condiviso con noi, dal titolo La natura collaborativa delle scene di danza non consolidate e consolidate. La collaborazione come strategia di sopravvivenza (2021):

Essere un professionista della danza è una scommessa, soprattutto a livello di sicurezze sociali. Se si considera la durata della formazione alla pratica (idealmente fin dalla prima infanzia), la durata della carriera attiva (raramente superiore ai 15-20 anni) e la quasi totale mancanza di sostegno istituzionale in caso di infortunio o di necessità di riconversione dopo una carriera attiva come artista, diventa evidente che il potenziale economico di un danzatore è irrisorio.

Purtroppo la pandemia ha evidenziato in Slovacchia (come in Italia) quanto la posizione dell’artista performativo sia precaria. In un panorama statale che offre così poco supporto finanziario e professionale, quali speranze possono esserci per una figura ancora meno riconoscibile quale quella del dramaturg? Quali fondamentali input e skills apporta un dramaturg nel panorama delle arti performative?

Quando si è costretti a ridurre il team creativo e i costi di produzione, la figura del dramaturg potrebbe essere la prima a sparire – potrebbe sembrare un lusso incredibile. Eppure la crisi, non solo quella energetica ma il più ampio cambiamento climatico, politico ed economico, accresce la precarietà della situazione, e richiede pertanto la creazione di nuove cornici e l’invenzione di soluzioni alternative. I e le dramaturg hanno la capacità di ri-narrare e incanalare i problemi in processi creativi, così come l’abilità di immaginare nuovi scenari, di trovare nuove strategie. Probabilmente questo contesto rende inevitabile un leggero slittamento del ruolo del dramaturg dalla creazione artistica a una posizione gestionale e organizzativa, ma la natura collaborativa del nostro lavoro ci ha insegnato a stare in gruppo, a creare collegamenti, a mediare e ad adattarci. Perciò i e le dramaturg rimangono figure indispensabili, anche con una scarsità di finanze, proprio per poter elaborare con gli artisti e i vari attori del settore nuove soluzioni.

La Slovacchia ha una solida tradizione nella formazione dei dramaturg teatrali e offre loro molte opportunità di lavoro nell’ambito dei teatri stabili. D’altra parte il campo della drammaturgia della danza si sta appena formando: non c’è altra opzione che continuare a lavorare come freelance, accettando una situazione molto precaria. L’esistenza di reti internazionali e lo scambio delle nostre esperienze locali sono di grande importanza. Allo stesso modo, è fondamentale che le e i dramaturg rimangano attivi nel dare voce e articolare i problemi, anche per questo sono indispensabili per l’intero settore.

Foto dall’archivio di Platforma pre súčasný tanec PLAST

La pandemia ha anche rivelato molti altri problemi e indicato alcune tendenze nella scena della danza globale. Ha confermato l’enorme vulnerabilità degli attori freelance, ma soprattutto di quelli il cui lavoro si basa su ciò che ora è più rischioso: la vicinanza, il contatto fisico, il respiro. Il mercato dell’arte dovrà rallentare, e al posto dell’internazionalità si porrà nuovamente l’accento sul locale.

Prosegue così il tuo saggio del 2021. Un anno dopo, trovi che sia andata effettivamente in questo modo? La danza “locale” ha guadagnato spazio e prestigio rispetto a quella “internazionale”?

La crisi energetica e una guerra in una zona relativamente vicina alla Slovacchia sono arrivate subito dopo la pandemia e hanno reso tutto ancora più complicato. Ci sono tagli massicci ai fondi per la cultura, tutto è nuovamente a rischio e certe condizioni devono essere rinegoziate. Ma questo non diminuisce la necessità di lavorare sulla sostenibilità e di bilanciare il sostegno agli artisti locali con l’apertura a reti internazionali, più ampie e diverse. Nonostante ci abbia inchiodato alle nostre case e ai nostri computer, la pandemia è stata soprattutto un’occasione per fare rete: ho stretto legami forti come mai prima d’ora, anche senza viaggiare molto. Forse dobbiamo approfondire proprio questi legami e ricostruire su di essi.

Ultimamente trovo sempre più importante dare priorità al rafforzamento delle relazioni con i paesi più vicini, dando vita e nutrendo cooperazioni a lungo termine. Queste azioni mirano sia a risposte sostenibili al grave contesto del cambiamento climatico, sia alla creazione di dialoghi e collaborazioni che smorzino la polarizzazione della società e la conseguente ascesa di stereotipi culturali e populismi in molti Paesi.

Provenendo dall’ex-Jugoslavia, ed essendo stata parte di un esodo massiccio di persone giovani e istruite a causa di un conflitto devastante tra gruppi etnici confinanti, sono molto sensibile ai temi del disfacimento sociale e della fuga dei giovani. Sono quindi ben consapevole di quanto facilmente la frustrazione sociale possa trasformarsi in conflitto e di quanto tempo ci voglia per riavviare le continuità interrotte. Le collaborazioni internazionali possono aiutare a disinnescare questi danni sociali e al tempo stesso a far crescere a livello locale una comunità fertile e coesa.

Margherita Scalise


in copertina: foto di Michal Liner

La traduzione dai testi citati e dell’intervista a Maja Hriešik sono a cura di M.S.