Come racconteresti questo tuo ultimo lavoro, LOVE | Paradisi artificiali?
Quando parlo dei miei lavori – e forse per quest’ultimo il discorso vale in modo particolare – potrei nominare una, dieci, ma anche zero tematiche che gli stanno dietro: sono sedimentazioni di strati, scintille. Poi, certo, nel titolo sono condensate due chiavi di decifrazione importanti. Da una parte c’è il tema amoroso, anzi è meglio dire “relazionale”, perché non è inteso necessariamente come amore di coppia ma come qualcosa di più universale; dall’altra parte c’è il tema baudelairiano della dipendenza. Del testo di Baudelaire [Les paradis artificiels, Parigi, 1860, ndr.] mi ha catturato soprattutto il fatto che la dipendenza è raccontata come un complicato bilico tra aspetti negativi e positivi: non ci sono certezze, ma la descrizione di un difficile equilibrio. Mi ritrovo molto in questa duplicità, perché anche il mio lavoro è anfibio. Da una parte mi interessa molto riuscire a suggerire paesaggi, ad aprire visioni, senza raccontare nulla; dall’altra, però, non mi interessa nemmeno essere troppo aperto, troppo indefinito: cerco sempre l’equilibrio tra questi due aspetti. Per esempio, nei miei lavori troverai sempre qualcosa di estremamente astratto ed evocativo insieme ad altri segni molto concreti, reali e inequivocabili. Mi piace giocare tra questi due poli. Mi sento come un artigiano che lavora con le mani e con gli strumenti: a partire da una pulsione interna, da una forte volontà, mi trovo capace di immaginare e produrre visioni, di far materializzare uno spettacolo.

Com’è stato lavorare insieme alle tre danzatrici, Chiara Ameglio, Olimpia Fortuni e Giulia Porcu?
È una questione articolata: le danzatrici sono materia viva, non strumenti. La prima cosa da dire è che io ho cominciato questo lavoro un anno prima di entrare in sala con loro, attraverso la costruzione di immagini che all’inizio erano solo ombre. A malapena avevo delle idee, su queste ombre, che piano piano diventavano donne – ma ancora non sapevo se loro tre avrebbero accettato di lavorare con me, se mi avrebbero detto sì. Insomma, non saprei dirti se i loro tre nomi sono venuti prima o dopo: ti direi che sono venuti durante, insieme a queste ombre che io immaginavo nella mia testa. Poi, certo, quando sono arrivate fisicamente in sala è cominciato il lavoro vero, a partire da loro, dalle loro storie, dalle loro energie, dai loro caratteri e dalle loro diversità. E, personalmente, sono molto felice del risultato.

Come sono stati gli ultimi anni, quelli dell’inizio del percorso come coreografo dopo tante esperienze come interprete – di cui la più lunga per cinque anni a Firenze insieme a Virgilio Sieni?
Sono passati tanti anni da quel momento: ci ho messo molto tempo ad arrivare dove sono ora. L’esperienza come interprete di Sieni mi ha dato tantissimo, ma quando ti accorgi che una realtà così forte ti si è incollata addosso è naturale reagire pensando di non volere più quella colla, cercando invece una propria autonomia – che vuol dire una propria visione drammaturgica, una propria capacità compositiva, un proprio sguardo. All’inizio però credo di aver sbagliato: forse ho rinnegato quanto fatto prima, ho fatto un po’ di capricci, e solo dopo ho imparato che i capricci non vanno fatti! La danza è un mondo che ti insegna tanto, addirittura troppo, e quello che impari poi lo devi dimenticare, se non vuoi essere la copia di qualcun altro. È un mondo in cui ti insegnano a essere «nel posto giusto», ma io non voglio essere nel posto giusto, voglio essere capace di essere nell’attimo reale, nel presente. Forse ora, con questo lavoro, ho davvero trovato una mia chiave, ma ci ho messo molto tempo.

E ora che piani hai? Continuare come coreografo?
Io voglio fare assolutamente il coreografo, anche se danzo ancora. Ora sono in tournée con due miei spettacoli molto diversi. Uno si chiama Who is Joseph? – anche questo è un lavoro a cui in realtà sono riuscito ad assegnare un “tema” solo dopo un anno che ci lavoravo: ha a che fare con l’enigma, con l’idea che nella costruzione coreografica ci sono degli enigmi da risolvere. Poi c’è anche un altro lavoro, un più vecchio, a cui tengo molto, si chiama: Biografia di un corpo. Un lavoro che forse, da quando è uscito, è stato un po’ penalizzato perché porta in scena il nudo maschile. Qualcosa che purtroppo, perfino sul palco, non è ancora del tutto accettato. Da qui ho capito che ora vorrei continuare a lavorare su questo: su come il maschio possa essere rappresentato non solo come vincitore ma anche come perdente. Ci sto ancora riflettendo, vedremo poi cosa sarà!

Virginia Magnaghi

(In copertina ph: Antonio Ficai)


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