di Luis García-Araus e Javier García Yague
regia di Serena Sinigaglia
visto al Teatro Ringhiera di Milano_ 2 Novembre-2 Dicembre 2012.
García è un giovane spagnolo disposto a sacrificare moglie e lavoro sull’altare di una sacra causa: avere dalla compagnia telefonica i 28 centesimi di rimborso che gli spettano di diritto. Il suo esempio influenza Carmen, impiegata precaria che da tempo infinito attende la riparazione del tetto di casa. E Carmen contagia Luís, che lotta contro il prete della sua parrocchia per ottenere lo sbattezzo, e Petra, che invece si batte per la sopravvivenza della figlia anoressica. La ribellione alla passività del vivere odierno si diffonde a macchia d’olio, ed ecco nati gli Indignados.
I protagonisti compiono il proprio percorso di emancipazione saltellando di scena in scena. Incontrano la moglie che vuole un figlio e una casa più grande, il boss-Bacco che tra una bevuta di caffè e l’altra licenzia i lavoratori insubordinati, il medico che considera i pazienti solo cartelle cliniche da firmare e controfirmare, l’avvocato azzeccaparcelle, il prete, la defilippica presentatrice tv, lo sbirro gonzo. Personaggi senz’anima, astrazioni negative di quelle che si vorrebbero le figure di riferimento per chi vive entro il recinto della società comunemente intesa.
Carmen, nel tentativo di esorcizzare il suo buco nel tetto, subisce l’attacco di tre demoni nonvedononsentononparlo, periti (nel senso di esperti, ma soprattutto di cadaveri) dell’assicurazione, dell’amministrazione condominiale, dell’impresa edile: ode al malcapitato consumatore, mai cittadino. Luís è il mattatore della scena nell’episodio del confessionale, tana del prete che non gli vuole mollare lo sbattezzo: messo in fuga il venditore di indulgenze, Luís viene però scambiato per il suo nemico da tre sciure che si mettono a raccontargli i propri peccati. Ma non si fa imbrigliare dall’amorale cristiana che tanto ha penato per lasciarsi alle spalle, e trasforma il rito da punitivo in liberatorio/libertario, comminando un po’ di buon sesso al posto dei padrenostri. La sua epica battaglia prosegue con il ratto della madonna, la cui statuina vuole barattare con la scomunica. Finisce così in televisione, dove riesce a sottoporre all’attenzione del pubblico il caso di Petra e della figlia che non mangia ma che nessuno cura: una sana dose di spettacolarizzazione del dolore privato, massima cifra distintiva della società mediatica dai Novanta in poi. Il giustizialista García nel frattempo trova modo di convertirsi, ammettendo – alla buonora – che se la battaglia è legale non si va molto lontano. Campane a festa e happy end per tutti, mentre, sullo sfondo, questa indignazione un po’ individualista si trasforma in un firmamento di piccoli atti di rivolta in ogni angolo del paese.
Testo e messinscena di per sé tengono. Con qualche battuta un po’ ingenua – lo studio non mi ha preparato alla vita, voglio due mutui, eccetera – e qualche altra meglio riuscita – violenza è guadagnare 600 euro al mese -, la sceneggiatura punta e arriva dritta alla risata del suo pubblico. Sarebbe risultata anche più agile se fosse stata un po’ sfoltita la foresta di gag e di scene esilaranti, che a volte sembrano di troppo. Bella la scenografia di oggetti volanti bruciacchiati e bello il finale fluttuante della leggerissima (ormai ex) anoressica. Un guizzo, uno scarto, e anche lo spettacolo avrebbe potuto spiccare il volo; ma nel complesso fila già liscio così com’è.
Il problema è altrove. La pièce si apre con una non troppo velata allusione testuale a Kafka: solo che anziché Il Processo va in scena Il Reclamo. Alla schiacciante burocrazia statale, religiosa, aziendale, familiare si risponde a suon di pratiche legali e rescissioni di contratti, e per farsi restituire 28 centesimi o per avere il tetto riparato. Fu vera lotta? Quando García e compagni (compagni?) non riescono a raggiungere i propri obiettivi se la prendono con altri impiegati, meno consapevoli ma certo non meno frustrati di loro. Perfino l’anoressia – una rivolta alla spazzatura che la vita costringe a ingoiare – viene presentata come una legge (stavolta autoimposta), cui ci si può sottrarre solo crepando. La madre della ragazza è sì disposta a tutto, anche alla violenza, pur di ottenere l’attenzione che la malattia della figlia merita, ma soltanto per il suo interesse individuale. La colpa del malfunzionamento di giustizia e sanità, poi, è di chi non paga le tasse: roba da mandare in solluchero i lettori del “Fatto quotidiano”. Solo l’apostata Luís, con il suo tentativo di impedire un battesimo, compie un gesto di lotta comune; purtroppo finisce in televisione, spettacolarizzato e quindi disinnescato.
“Non stiamo bussando alla porta, la stiamo buttando giù!”, esclama l’entusiasta Carmen; e invece stanno proprio bussando. Sembra che le uniche Ribellioni possibili oggi siano quelle private, a modino, senza piazza e senza corpo collettivo. Un’altra galassia rispetto ai movimenti del Quindici maggio, di Zuccotti Park e di Tahrir.
Cristina Cecchi