Pubblichiamo qui le recensioni dello spettacolo Schianto della compagnia Oyes scritte nell’ambito del progetto Cantiere Koltès da un gruppo di universitari, appassionati e danzatori.

A un incrocio, quattro storie. Quattro vite frammentate, come l’enorme parabrezza “schiantato” alle loro spalle. Un tassista, un malato, un supereroe, una cantante. Un padre che ama un figlio forse non suo, un impiegato che sta per perdere tutto senza che sappia trovare un motivo per cui questo dovrebbe dispiacergli, un Robin che vorrebbe cambiare il mondo, divenendo protagonista della storia di Batman, e una donna insicura che, per cercare di dire a se stessa che qualcuno la vuole, si esibisce in uno squallido bar, regalando agli uomini il proprio amore. Due di loro si collocano nella realtà, e si incontrano per una pura situazione contingente, un passaggio in taxi: hanno bisogno l’uno dell’altro, come un qualunque venditore del suo cliente, come chi vuole fuggire ha bisogno di un mezzo di trasporto. Ma un evento fuori di loro, l’investimento inavvertito di una non meglio definibile “bestia” innocente (maschera animale su un corpo umano), determina il progressivo immergersi in una dimensione surreale, fuori dagli spazi e dai tempi della città, quasi si trovassero in un fumetto, trasposto sulla scena dalle illuminazioni cyan, magenta, yellow. Contestualmente, un eroe di terza classe, spuntato dal buio in un costumino sgargiante e ridicolo — che concretizza l’illusione di poter cambiare l’invivibile società al grido di: «Se si vuole, si può!» — e una formosa cantante da film saranno i segni più tangibili dell’esperienza onirica che sta per aver luogo. Sono questi due personaggi a dare il via a una schietta confessione reciproca, che metterà tutti di fronte alla realtà da cui scappano, senza che essa possa raggiungere nessuno. Vittime e attori della disgrazia che sembra riguardarci tutti: l’incapacità di incontrare l’altro, anche in un abbraccio, in un bacio o nell’amplesso. Tutti si urlano contro la verità senza che nulla possa raggiungere l’altro; confessioni intime lasciate al vento, che nulla possono offrire se non il senso di liberazione di uno sfogo. L’unico approdo possibile è la rassegnazione alla propria inutilità nel mondo, alla propria disperata condizione e alla propria esclusione. Il pubblico del teatro Litta è così trasportato nel tempo surreale della non quotidianità, in cui una certa “pausa” dalla propria esistenza si dilata per offrire uno spazio al confronto. Un confronto pur sterile per i personaggi in scena, ma in grado di stimolare lo spettatore a una riflessione sulla propria condizione nel mondo: rifiutare l’ipocrisia di una vita dietro a una maschera è davvero sufficiente ad attuare un cambiamento in positivo?

Diego Luinetti e Lidia Melegoni

 

Sarà lo sguardo di un coniglio bianco a mettere in crisi un flusso di istinti il cui esito appare più simile a un ristagnare che a uno scorrere. Sarà un coniglio bianco accasciato con discrezione sul sedile posteriore del taxi che lo ha investito a risvegliare le solitudini degli investitori – quasi una categoria umana – da un sonno impastato. Eppure riusciranno a risalire non oltre uno stato di dormiveglia, come in un lento bagno di sudore. Commossi di fronte a un fantoccio, più che mai ci si chiede quanto di ciò che vediamo sia mera proiezione. La regia di Stefano Cordella spinge e a momenti trascina sul palcoscenico un girotondo di sapore schnitzleriano, i cui protagonisti pronunciano parole vuote con intensità tale da bucarne il contenuto. Nell’emorragia di significato ciascuno di loro si porta addosso come un abito – un abito straccio – la storia del suo vicino, pur senza volontà, in una continuità ammorbante fatta solamente di contingenze. Forse è proprio il gioco di strascichi a impedire all’abito di mostrarsi per ciò che è realmente, mentre qualcosa di simile accade anche della nostra esausta speranza che se ne riveli, prima o poi, l’anima. La confessione assume il colore di un autoinganno e non c’è disgelo che non sia illusorio. Una sostanza opaca ricopre ogni cosa al tempo stesso stringendo il respiro e gonfiando le distanze, insanabili persino al corpo a corpo. L’acme sembra roteare come sul disco di una roulette e se ne perdono a momenti le tracce, fino a quando non sorge il dubbio che ci possa colpire alle spalle. Se è vero che la nuova produzione di Oyes si ispira liberamente all’immaginario di Bernard Marie Koltès e al suo Nella solitudine dei campi di cotone la drammaturgia sulla scena imbocca altri sentieri e la coesione narrativa procede faticosa, accelera e rallenta, restituisce all’occhio un’amarezza che si ritorce, apre buchi come paludi e rischia di farlo fra pubblico e palcoscenico. Potesse Schianto chiamarsi un affogamento vorrebbe dire che ci siamo caduti, che ci hanno convinti ad allungarci sull’orlo di quest’acqua nera, che abbiamo creduto tanto da cadere ad occhi aperti. Eppure qualcosa trattiene. Queste anime troppo vestite non convincono lo sguardo a spogliarsi e avanzare.

Federica Carlotta Lai

 

Un vetro infranto domina la scena nel buio della sala principale del teatro Litta. Ai suoi piedi tre personaggi cominciano indistintamente a parlare finché a turno, in una vorticosa sovrapposizione, non si delineano lentamente gli inizi delle loro confuse storie personali. Una donna insoddisfatta del proprio lavoro e del proprio corpo, un tassista in attesa di scoprire una triste verità e un ragazzo deciso a compiere un atto rivoluzionario. Nessuna relazione, nessun legame fra queste tre realtà finché non entra in scena un uomo che è costretto a prendere un taxi. In una corsa verso un luogo poco importante guidatore e passeggero man man arrivano a scambiarsi dei convenevoli, che cominciano a diventare via via sempre più accesi ed insopportabili fino a causare un incidente automobilistico. Il contrattempo della macchina rotta e la compassione nei confronti del cerbiatto che hanno rischiato di investire diventano un punto di contatto fra i due che in quel momento, pur non ammettendolo, si rendono conto di condividere lo stesso peso: quello di non avere niente. Il nichilismo dell’acuto spettacolo messo in scena dalla compagnia Oyesriflette la condizione della noia e del vuoto esistenziale che sono diventati oramai abitudine per gli individui intrappolati nel gioco scenico. In un girovagare senza meta i due incontrano il giovane travestito da Robin, celebre aiutante di Batman e una cantante di un nightclub. I loro comportamenti sregolati, contraddistinti da un consumismo alcolico, affettivo e sessuale, sono un oppiaceo per combattere la propria condizione e la sensazione di nausea che accompagna la loro vita senza scopo. Questo fatale gioco porterà all’esasperazione Robin, tanto idealista da rasentare il ridicolo, che come un fool shakespeariano è l’unico che riesce andare a fondo nella realtà e portarla alle sue estreme conseguenze.

Francesca Pozzo

 

Tutto inizia con quattro personaggi che raccontano il principio della propria giornata, non sanno però che le loro storie sono destinate a convergere in una sola. Il primo personaggio è un uomo disperato che sale su un taxi per dirigersi lontano da tutto, il tassista invece è il secondo personaggio, loquace e di buon umore, impegnato nel tentativo di fare conversazione, così impegnato che si distrae dalla guida e travolge un animale. Lo schianto è il punto di partenza di un viaggio dalle atmosfere oniriche, ma anche ricco di temi concreti, in cui incontriamo, prima, un ragazzo travestito da super eroe e poi una donna che forse vende qualcosa. Il testo di Koltès, Nella solitudine dei campi di cotone, da cui la compagnia Oyes è partita per dare vita a Schianto, si rivela attraverso il concetto di desiderio. Concetto che fuoriesce dai quattro personaggi in diversi modi. Il primo uomo è pentito di tutto ciò che ha desiderato e nel desiderio vede solo una grande fregatura; per il tassista invece desiderio è gioia, ma si accorge che a volte può nascondere la verità, è quindi costretto a scegliere cosa per lui sia più importante; il ragazzo, poi, è pieno di desideri ma è anche tremendamente impossibilitato a raggiungerli; la donna, infine, assuefatta al provare desiderio, è rassegnata a viverlo come una routine. Ma se Koltès arriva quasi a farmi dubitare che i due personaggi del suo racconto siano veramente due e non uno solo, la riscrittura della compagnia Oyes mette in scena quattro personaggi ben distinti, direi quasi ai limiti dello stereotipo, ma che nel loro incarnare generazioni e categorie sono anche in grado di raccontare qualcosa di personale del singolo attore che li rappresenta. Succede ad esempio che nella storia la donna, interpretata da Francesca Gemma, venga giudicata in merito alle sue doti canore e al suo aspetto fisico, voce e corpo che appartengono effettivamente all’attrice. Una buona dose di realtà è portata in questo modo sul palcoscenico e gettata in faccia a coloro che si aspettano un teatro di sola finzione. Di tanto in tanto gli attori sanno tagliare l’aria con sorprendenti frecce di comicità, decisamente efficaci, ma rimane, forse, ancora troppo visibile la matrice di improvvisazione che ha lasciato qua e là dei dialoghi un po’ stentati. La scenografia, che è un enorme vetro frantumato, è utilizzata con originalità per l’ingresso di alcuni personaggi con l’effetto di apparizione, a metà fra l’horror e il fantascientifico. Frantumi che richiamano molto le crepe degli smartphone quando si rompono, forse un indizio sul fatto che lo spettacolo parla di temi attuali e che le frustrazioni dei personaggi sono in parte le frustrazioni del nostro tempo.

Giovanni Lorenzi

 

È difficile dire del bene di Schianto – che ha del paradossale, funziona al modo d’una pratica invalsa tra gli antichi: il dar fuoco ai campi per propiziarne la fertilità. La sua riuscita, cioè, ha da pagar lo scotto dell’autolesionismo, dell’autoannichilimento: noialtri vediamo montare il ‘discorso’ di scena sino al punto di renderci presente, attuale il suo oggetto – e il suo oggetto è un certo qual malessere, una lucidità dolorosa, che anche noi – adesso – ci sentiamo sulla pelle, e che scopre le maglie grosse del sitema-vita: la vacuità del nostro dibatterci quotidiano, l’inanità degli sforzi, la corsa alla morte e dunque il ridicolo delle intenzioni, e della forma, l’assurdità di una via privilegiata di vita; sicché per noi, presi in questo vortice, si tratta di domandarsi –  a questo punto e a carte tutte scoperte – non già come vivere, ma intanto se vivere o morire. Evocato dalle parole degli attori, il malessere ci è diventato reale, ha preso non solo consistenza, ma persino autonomia da ciò che vediamo rappresentato; anzi, l’impressione è proprio che finisca col dargli contro, al rappresentato: “che senso ha parlarne – vien da chiedere, e la domanda è già un dare sostanza al mal di vivere che ormai è tra noi -, a che pro funestare la divina indifferenza? Non è problema su cui si possa intervenire, e gli Oyes non possono aver creduto in buona fede di fare opera maieutica, di cavar  fuori allo spettatore una verità misconosciuta. Perché poi parlarne a questo modo, con questa insistenza su una trama, dialoghi  esasperanti tra personaggi discutibili?” Ecco perché non sembra essere il racconto di ciò che accade sulla scena – ci sono: un taxista quasi-padre scaricato dalla moglie, un malato terminale che, a conti fatti, sa di aver buttato via la vita, un uomo-coniglio (comparsa), la cantante savia di un night di periferia, e il Robin di Batman, e si incontrano – il modo più efficace di dar conto del bello, del riuscito di Schianto: se abbiamo scelto di continuare la vita a ragion veduta, tanto vale cavarci fuori qualcosa di buono — dal male di vivere —, una vena, al modo di Montale; e Schianto ne ha offerta occasione. Eppure è lo spettacolo che è stato capace di generare questo stato di sapienza apocalittica; difficile però dire che cosa ne sia responsabile, e tutt’al più si possono tentare delle ipotesi: forse la disposizione introspettiva a cui lo spettatore è guadagnato per il modo della presentazione dei personaggi, la verbalizzazione del flusso di coscienza, e il racconto in presa diretta. Forse il tipo di relazione che si stabilisce tra loro: il cogliere nell’altro, dall’altro solo ciò che rimanda al sé, e non solo in vista dell’utile – la qual cosa presupporrebbe una possibilità attiva rispetto al vivere, alla relazione, ma peggio, per un limite inaggirabile della conoscenza. Forse ancora i dialoghi iper-estesi, trascinati avanti sino all’esaurimento della possibilità della relazione, all’esclusione dell’implicito, con un’insistenza da cui lo spettatore è esasperato. Forse tutte queste cose insieme. Altre idee?

Federica Monterisi

Schianto
ideazione e regia Stefano Cordella
drammaturgia collettiva
con Francesca Gemma, Dario Merlini, Umberto Terruso, Fabio Zulli
produzione Oyes
visto al Teatro Litta 14 – 24 febbraio 2019