Ora che tutto è finito, possiamo cominciare. Medea’s Children, l’ultimo dei tre capitoli (dopo Orestes in Mosul e Antigone in the Amazon) dedicati da Milo Rau alla tragedia greca, e presentato in prima nazionale al Teatro alle Tese nell’ambito dell’edizione 2024 della Biennale Teatro, prende avvio “in differita”. A svolgere la funzione del prologo è, infatti, la ricostruzione di un “incontro post-spettacolo” tra gli attori-bambini del cast, l’acting coach (Peter Seynaeve) e il pubblico. I toni sono rilassati e l’atmosfera informale. Il moderatore invita gli spettatori seduti in sala a porre domande «vere», mentre i giovani interpreti condividono le loro considerazioni sullo spettacolo, discutono del processo di creazione del lavoro e non mancano di lasciarsi andare, opportunamente incalzati dal loro coordinatore, a confidenze personali, di cui capiremo la portata solo più avanti: «I miei nonni esagerano sempre quando ci vediamo. Mi baciano dappertutto», dice una bambina. Ma soprattutto, in apparente opposizione alla volontà dell’unico adulto sul palco, vogliono rimettere in scena lo spettacolo. Ecco, fin qui, la scelta di Rau potrebbe sembrare un escamotage, una sorta di preterizione per ritardare l’avvio dello spettacolo. E invece, come spesso accade nei lavori del regista svizzero, la prima lettura è solo un’esca per agganciare lo spettatore e trascinarlo più giù, nelle profondità di un’opera i cui livelli interpretativi lo imprigioneranno come gironi concentrici.
Il proscenio dove si svolge l’incontro non è infatti solo un luogo di giochi metateatrali, ma una sorta di safe zone: lo spazio per fornire al pubblico gli strumenti necessari ad affrontare la visione e, al tempo stesso, il luogo dove potrà recuperare fiato tra una tappa e l’altra di questo viaggio negli abissi.
Ma ora è tempo di tornare in scena. Convinto dalle insistenti richieste dei bambini, Peter Seynaeve fa aprire il sipario: lo spettacolo può iniziare. Di nuovo.
C’era una volta Medea
Come accadeva in Five Easy Pieces e ne La reprise, la vicenda narrata in Medea’s Children non è soltanto quella del mito, ma trova un corrispettivo oggettivo nell’oggi, in un fatto di cronaca nera. In Belgio, nel 2007, Geneviève Lhermitte — nella finzione scenica chiamata Amandine Moreau — mentre il marito Mounir si trova in Marocco, uccide uno a uno i suoi cinque figli. La donna, anni dopo il crimine, chiederà e otterrà l’eutanasia in carcere.
Indossando costumi di scena che sembrano usciti dal baule di una recita scolastica, i bambini danno il via alla “replica”, mentre, in simultanea, su alcuni schermi posti sul fondale, assistiamo ad alcune sequenze del tutto simili a quelle che accadono sul palco, solo interpretate da attori adulti. Fin da subito il regista sceglie di muoversi in un campo ben noto: la centralità di un fatto violento, la presenza di attori-bambini, la suddivisione in capitoli, ognuno dedicato a un personaggio. E si serve di un linguaggio che ha praticato a lungo: i video, l’utilizzo della telecamera in presa diretta e il formato dell’intervista, ad esempio. Forte di questo ben rodato equipaggiamento, Rau ingaggia per tutto il corso della rappresentazione un dialogo senza esclusione di colpi con il precedente greco.
Primo colpo assestato: la scena è in mano ai bambini, a cui nella tragedia euripidea erano riservate solo poche battute, per di più pronunciate con tutta probabilità da uno dei tre attori adulti in scena. «Non ci sono mai bambini in scena nelle tragedie greche. Mai. Non credo sia giusto» afferma risoluto uno degli interpreti, già nel prologo iniziale. Restituire la parola a chi viene negata, dunque, ma non solo: è infatti l’intera forma tragica a tradursi nel mondo dell’infanzia. L’estetica e il tono, fin dai primi momenti, sono quelli della fiaba; i colori e le luci della scenografia e dei video, quelli di un libro illustrato. Una scelta stilistica e linguistica nuova per il regista, che calza perfettamente sui giovani corpi in scena. In fondo, la fiaba per certi versi assolve, nel mondo dell’infanzia, funzioni simili a quelle della tragedia per il pubblico greco, prima di tutto quella catartica e quella paideutica. L’atmosfera sospesa e quasi irreale non frena tuttavia il piglio investigativo di Rau. L’indagine sulla violenza procede, come di consueto, per gradi: si comincia con l’intervista ai genitori di Amandine, al Dott. Glass, ambiguo padre adottivo di Mounir, poi al marito. Si cercano le prove, si raccolgono gli indizi del male che deve ancora succedere. In questa progressiva e inevitabile discesa verso l’orrore si riconoscono brevi ma letterali passi dell’originale greco, che sembrano introdurre i fatti rievocati, innescando una dinamica per la quale è la cronaca a gettare luce sul testo di Euripide, piuttosto che il contrario.
L’anatomia della violenza
Il capitolo dedicato ad Amandine è quello della ricomposizione mimetica: di fatto, una ricostruzione filmica estremamente dettagliata dell’atto violento — l’equivalente della sezione L’anatomie du crime, nella Reprise. Anche di questo ci avevano avvertito i bambini all’inizio dello spettacolo, interrogati su come avrebbero voluto raccontare la tragedia: «Io credo che dovremmo mostrare il più possibile. Con un sacco di primi piani, gole tagliate e sangue finto», come al cinema, aggiungiamo noi.
Il secondo colpo sferrato da Rau al progenitore Euripide non tarda ad arrivare: ciò che nella tragedia greca non può essere mostrato è qui il culmine dello spettacolo. Il reenactment degli omicidi si realizzerà, di fatto, in un alternarsi ininterrotto di video, inquadrature live, o presunte tali, primi piani e ricostruzioni in scena. Si comincia dallo schermo del fondale sul quale vediamo una delle giovani attrici (Bernice Van Walleghem) che cammina in un supermercato, si ferma tra i corridoi e acquista un coltello. Tornata a casa dai suoi cinque figli, in scena, li convoca, uno a uno, in una stanza. Finge di voler mostrare loro qualcosa o di avere una sorpresa. Ma li uccide soffocandoli e tagliando loro la gola. Il tempo lungo della morte — che ricorda molto da vicino l’omicidio-suicidio dei due fratellini nella Medea di Lars Von Trier — e le grida dei bambini sono realistici al punto che la visione è difficile da sostenere.
Uccidere il mostro
Finito il massacro, Peter Seynaeve, dopo aver aiutato Amandine a spostare i corpi, si congratula con gli attori per la riuscita del pezzo e consola chi di loro è sconvolto dall’atto appena compiuto. «Abbiamo esagerato?» gli chiede qualcuno. È proprio la figura dell’unico adulto sul palco a incarnare un altro nodo chiave della lettura di Rau, e cioè una forma di violenza differente, più sottile e meno esibita di quella del sangue.
Il corso della narrazione, in tutte le sue fasi, è infatti continuamente interrotto dai commenti del coach, che si complimenta con gli attori e ne indirizza l’interpretazione. I bambini sono, di fatto, costantemente “provinati” da un adulto che ne decreta i successi e gli inciampi. Quasi a dire che la parola viene data ai più piccoli solo illusoriamente, perché ogni loro gesto è comunque vagliato dai più grandi. Questo ambiguo rapporto di potere che attraversa tutta la rappresentazione — lo si ritrova nel rapporto subdolo tra il marito di Amandine e il padre adottivo, nelle confidenze dei bambini sui fastidi causati, anche inconsapevolmente, dagli adulti a loro vicini, nell’attesa vana di Dirk, il responsabile del cast che gli attori invocano di frequente, ma che non arriverà mai — non è molto diverso dalla relazione di potere che il regista creava in scena con i piccoli interpreti di Five Easy Pieces. Allo stesso tempo però è di tutt’altra portata: perché nel relazionarsi al capostipite greco e nel dedicare un’opera ai bambini di Medea, Rau si fa carico di una ben precisa eredità — quella del silenzio a cui il tragediografo greco condannava i figli della donna di Colchide.
Ma forse Rau ci chiede un passo in più, per raggiungere un altro anello nella sua spirale interpretativa. Come in ogni fiaba che si rispetti, alla fine l’eroe è chiamato a sconfiggere il mostro. E anche in questo caso i piccoli protagonisti devono compiere un gesto salvifico e rituale: uccidere chi li ha costretti alla violenza, per trasformare ciò che è accaduto in materia nuova. Un drago colorato, personificazione di Medea e della terra selvaggia da cui proviene, compare in scena — e contemporaneamente sullo schermo — e viene trafitto da una spada. A interpretarlo nel video proiettato non è altri che Milo Rau stesso, che si rivela al pubblico togliendosi la maschera in uno degli ultimi momenti dello spettacolo. Il regista si fa così carico “personalmente” di ciò che è accaduto, dei soprusi e della violenza, e firma la sua opera, saldando il suo debito di adulto verso i figli di Medea.
Quello che rimane
E cosa resta dunque di Medea, una volta che i suoi figli sono, in qualche modo, sopravvissuti?
Nel monologo finale, una ricostruzione drammaturgica molto potente delle parole pronunciate da Amandine prima dell’eutanasia, la donna chiede al pubblico di essere salvata: «Qui qualcuno avrebbe potuto liberarmi dalla mia solitudine». «Noi siamo i figli di noi stessi, siamo le nostre stesse madri», dirà poco dopo uno dei bambini, in controcanto alle parole della donna. Grazie a quella capacità di intercettare le sfumature più sottili dell’umano che appartiene alla sensibilità di Milo Rau, riconosciamo, disseminati per tutto lo spettacolo, frammenti in cui gli attori si accostano al dolore di Amandine: «mi viene facile identificarmi con lei», afferma a un certo punto una bambina, «col fatto che stesse perdendo dei pezzi di sé, nel suo mondo». «Per me Medea è una storia di abbandono, di solitudine», «La cosa più difficile è stata uccidere il drago» commentano altri.
Raggiunto questo crinale sottile in cui il bene e il male si incontrano — in cui una bambina trova il coraggio di abbracciare quel drago che, in fondo, non voleva uccidere davvero — lo spettatore capisce che è inutile seguire le coordinate note. Laddove la bussola impazzisce, lo spettacolo di Rau trova la sua più completa realizzazione.
Camilla Lietti
in copertina: foto di Andrea Avezzù
MEDEA’S CHILDREN
ideazione e regia Milo Rau
con Peter Seynaeve, Bernice Van Walleghem, Aiko Benaouisse, Ella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes
drammaturgia Kaatje De Geest
video design Moritz von Dungern
disegno sonoro Elia Rediger
disegno luci Dennis Diels
scene ruimtevaarders
costumi Jo De Visscher
attrezzeria Joris Soenen
produzione NTGent
coproduzione La Biennale di Venezia, Wiener Festwochen, ITA – Internationaal Theater Amsterdam, Tandem – Scène nationale (Arras Douai)