Fedra
di Seneca
regia di Carlo Cerciello
visto al Teatro Greco di Siracusa_ 23-26 giugno 2016 nell’ambito del 52esimo ciclo di rappresentazioni classiche / Istituto Nazionale Dramma Antico (INDA)
A chiudere la rassegna siracusana dedicata al teatro classico, quest’anno, è la Fedra di Seneca. Lo spettacolo è stato, per così dire, confinato in coda di programmazione, dopo oltre un mese di repliche alterne di Alcesti ed Elettra. Si può dunque immaginare che molti spettatori abbiano preferito vedere due tragedie greche in un unico soggiorno, piuttosto che una sola (e per di più di Seneca). Difficile negare infatti che il teatro senecano – con le sue roboanti tirate, la marcata anti-teatralità, l’ostentata densità filosofica – ha dalla sua un minor numero di appassionati del più amato genitore greco: eppure per il secondo anno consecutivo l’INDA ha inserito nella programmazione anche i drammi dell’autore latino.
Le ragioni di questa decisione sono in realtà evidenti: Seneca rappresenta uno snodo fondamentale verso la modernità, un punto di riferimento decisivo per moltissimi autori della nostra più recente tradizione teatrale. E Fedra è un ottimo esempio del ruolo di Seneca nella tradizione del mito. A differenza della reticente Fedra euripidea, che confessa controvoglia alla nutrice l’indicibile amore per il figliastro e poi si limita a scivolare sul piano inclinato del fato, l’eroina senecana è diretta e spregiudicata: dobbiamo proprio all’autore latino l’infuocata dichiarazione amorosa della matrigna a Ippolito. Inutile dire che da qui non si tornerà più indietro: le riscritture di Racine, D’Annunzio, e Sarah Kane (per citare solo gli autori più noti) avranno come riferimento imprescindibile l’audacia del personaggio senecano.
Nell’affrontare questo ribollente materiale drammaturgico, Carlo Cerciello si fa guidare da alcune interessanti intuizioni registiche. La prima è la netta bipartizione dello spazio, che marca le sfere di interesse dei due personaggi principali e ne illumina così la profonda incompatibilità. Da un lato le stanze femminili di Fedra, brulicanti di bianche ancelle e echeggianti sospiri d’amore; dall’altro gli spazi boschivi di Ippolito, i fedeli compagni di caccia, i culti della venerata Artemide. Significativa è anche la particolare attenzione dedicata al personaggio della nutrice (Bruna Rossi) e al suo sviluppo drammatico: dapprima ferma oppositrice del disegno d’amore di Fedra, pare quasi una severa istitutrice teutonica; poi confidente capace di empatia, e melliflua mezzana; infine sofferente complice del tragico piano della regina.
Il maggiore punto di forza dello spettacolo sono però, senza alcun dubbio, gli attori, che cercano una tensione tragica contenuta, raramente urlata e mai sopra le righe: oltre alla protagonista Imma Villa, si distinguono il bravo Fausto Russo Alesi, che interpreta sapientemente sia Ippolito che il padre Teseo, e Sergio Mancinelli con il suo vibrante racconto del messaggero.
Di tutto il resto – delle musiche enfatiche e didascaliche, dei costumi da cinema peplum, delle coreografie da corte settecentesca – si farebbe volentieri a meno: pare di trovarsi di fronte a elaborate meringhe decorative su una torta già sovraccarica. Quando ad agire nello spazio vuoto e silenzioso restano solo le fortissime tensioni tra i personaggi, si sente il pubblico trattenere il fiato. E ci si accorge di quale formidabile ricetta possa essere la semplicità.
Maddalena Giovannelli