Somnole è il primo assolo che Boris Charmatz ha scritto per sé. Bisogna tornare al 1994, ancora agli inizi della carriera del coreografo – allora da poco diplomato all’École de l’Opéra e già pronto a scuotere la danza francese – per trovarlo solo sul palco in Les Disparates. Quella volta, però, la coreografia era «a due teste», cofirmata con Dimitri Chamblas (e insieme i due avevano non solo studiato al Conservatorio di Lione, ma anche scritto e danzato il loro pas de deux d’esordio, À bras-le-corps, nel 1992). Da allora, tra duetti e lavori per ensemble ormai storici, l’idea di un assolo era stata tenuta ai margini, eclissata da tournée internazionali, direzioni artistiche apicali (l’ultima, da quest’autunno, quella del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch) e, soprattutto, da una coreografia fatta per addizioni, dove la scena è – parole sue – una bozza (brouillon): un foglio su cui chi scrive appunta idee per poi, retrocedendo, osservarne l’incontro. In Somnole, però, l’io ha cercato spazio: tra fatica e ricordo, tra gioco e serietà. Dopo il debutto a Parigi dell’autunno scorso e la data milanese negli spazi della Triennale, lo spettacolo è arrivato a Firenze all’interno de La democrazia del corpo, stagione diretta da Virgilio Sieni a Cango.
Non è Somne né Sommeil. Le note di intenti del coreografo fanno intuire che Somnole è un verbo coniugato alla prima persona singolare: quella di chi sonnecchia racchiuso nella solitudine (so-le); quella di un corpo fermo sul confine tra il giorno e la notte e che, ancora fremente eppure vincolato al riposo, lascia alla mente la scrittura della danza. Nella costrizione di una coreografia prima pensata e solo in un secondo momento eseguita, Somnole infine nega la stessa sonnolenza da cui nasce: al contrario, diventa il vortice con cui il danzatore reagisce al pensiero inaccettabile del corpo dormiente, del corpo immobile.
Lo spazio del sonno profondo è assente: relegato alle spalle degli spettatori, il letargo da cui Charmatz emerge e a cui alla fine fa ritorno – nella fatica di una camminata in penombra, le braccia levate a tastare il vuoto – è senza collocazione. Sulla scena, un raggio freddo e tenue rifugge la stasi: Yves Godin, al fianco del coreografo fin dagli inizi, ha lavorato a «una sorte di drone volante che mi illumina in movimento» (così, ancora, le note di Charmatz).
Nel mezzo, il sentore di una sfida; ma – e qui sta tutto o quasi – senza che il lavoro si tinga mai di agonismo, di violenza, di eccesso. Fattosi largo nel buio, Charmatz misura lo spazio a falcate rapide e a passi leggeri; cammina, corre, salta ostacoli immaginari e guarda il vuoto intorno a sé da ogni prospettiva; nelle pareti verticali come in quelle orizzontali cerca ora un appoggio, ora un nemico contro cui tuffarsi, scagliarsi, battersi; sfianca il proprio corpo affondandovi le unghie, ostentando il sudore e battendosi il ventre fino a riportare alla luce il calore del marmo. Si intitolava così il saggio di Vincenzo Farinella e Giovanni Agosti nel volume della Storia dell’arte Einaudi dedicato alla memoria dell’antico: in quelle stesse tre parole sta tutta la vitalità che può sprigionarsi dal corpo scultoreo, tutto il sangue che pulsa nel corpo danzante.
Soprattutto, però, Somnole è fiato: è il gesto sovrumano, indimenticabile, quasi eroico – e pure stemperato nel fischio, memoria giocosa di una passione d’infanzia – di accompagnare da sé il proprio assolo. Dall’inizio alla fine Charmatz fischia le note su cui danza: da Bach a Vivaldi, da Grieg a Morricone, da Elvis a Gershwin, tutto è instancabilmente e mirabilmente musicato tra un passo e l’altro. Nello sforzo il respiro reclama spazio e detta il ritmo come un tamburo, mentre anche la voce ogni tanto si fa largo e vibra tra le corde di un corpo a cui si sta chiedendo sempre di più: un corpo che diventa strumento a fiato, a corda e a percussione, per un concerto che Charmatz compone, dirige ed esegue. Suoni e idee nascono nello stesso tempo – inseparati e inseparabili – del movimento e delle linee, e insieme riescono, quasi inspiegabilmente, a pacificare i contrasti. Per esempio, quello tra il bianco e nero minimale delle luci e i colori vivi che vestono il danzatore in una gonna a pieghe; quello tra la veemenza dei suoi movimenti e la leggerezza di quell’unica stoffa – disegnata da Marion Reginer – che a ogni gesto sa sollevarsi ampia. Raramente tutto questo rallenta: lo fa, inaspettatamente, quando Charmatz prende la mano di una spettatrice e danza con lei. Sul finale, il singolo raggio che ha scalfito il buio si trasforma in un fascio avvolgente: proviene da quello stesso luogo che, recondito, ha richiamato a sé il danzatore e, da lì, retro-illumina le schiene degli spettatori. Scrive Charmatz, «infine è al pubblico che la danza deve tornare».
Virginia Magnaghi
foto di copertina: Marc Domage
SOMNOLE
coreografia e interpretazione Boris Charmatz
assistente coreografa Magali Caillet Gajan
luci Yves Godin
collaboratrice ai costumi Marion Regnier
preparazione voce Dalila Khatir
con l’aiuto di Bertrand Causse e Médéric Collignon
materiali sonori ispirati tra gli altri a J.S. Bach, A. Vivaldi, B. Eilish, J. Kosma, E. Morricone, G.F. Haendel
direttore di scena Fabrice Le Fur
tecnico luci Germain Fourvel
vicedirettore [terrain] Hélène Joly
direzione di produzione Lucas Chardon, Martina Hochmuth
responsabile di produzione Jessica Crasnier, Briac Geffrault
produzione e distribuzione [terrain]
con il supporto di Dance Reflections di Van Cleef & Arpels, Lafayette Anticipations – Fondation d’entreprise Galeries Lafayette, nell’ambito del programma Atelier en résidence e Tanztheater Wuppertal Pina Bausch
co-produzione Opéra de Lille – Théâtre Lyrique d’Intérêt National, le phénix – scène nationale de Valenciennes – pôle européen de création, Bonlieu – scène nationale d’Annecy, Charleroi Danse – Centre chorégraphique de Wallonie-Bruxelles, Festival d’Automne à Paris, Festival de Marseille, Teatro Municipal do Porto, Helsinki Festival, Scène nationale d’Orléans, MC93 – Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis, Pavillon ADC
con la partecipazione di Jeune théâtre national
grazie a Alban Moraud, Mette Ingvartsen, Iris Ingvartsen Charmatz, Xenia Ingvartsen Charmatz, Florentine Busson, Çağdaş Ermiş
fotografia Marc Domage