Nella sala del Lavoratorio, che qualche ora dopo avrebbe ospitato Ho un progetto: includervi, abbiamo conversato con Massimo Verdastro, che ci ha donato con grande generosità molto della vita e del lavoro di Nino Gennaro, del loro incontro e della strada percorsa insieme, che ancora oggi prosegue. Saremmo tentate di consegnarvi questa intervista prendendo in prestito la formula con cui spesso Nino terminava le sue lettere: «Cuore di Nino e di Massimo a cuore del lettore. Direttamente».
Com’è nata l’idea di questo “spettacolo-non spettacolo”?
Questa performance non nasce come evento teatrale, bensì come esito imprevisto del premio Nino Gennaro, che quest’anno mi è stato conferito dal Sicilia Queer filmfest di Palermo: un riconoscimento per gli artisti e gli attivisti impegnati nella battaglia per i diritti LGBTQ+. È un premio che giunge a trent’anni esatti dalla morte di Nino: ed è proprio questa ricorrenza che mi ha convinto a pubblicare Caro amico ti scrivevo, una raccolta dellle lettere che mi ha spedito dal 1991 al 1995. Dalla volontà di presentare il libro a Palermo e dalla richiesta, da parte del Sicilia Queer filmfest, di ripercorrere la storia del mio rapporto di amicizia con Nino, è nato il primo nucleo di Ho un progetto: includervi. È un “incontro”, non propriamente uno spettacolo, perché in esso si dà molto spazio alle mie memorie. Al mio racconto si sono aggiunti brevi video, alcuni realizzati proprio per il festival cinematografico, come quello che ripercorre alcuni momenti della vita e degli happening di Nino, mentre del 1999 è il lungo trailer dello spettacolo Teatro Madre, girato da Nico Garrone. L’estratto recitato è da La divina di Palermo, il primo spettacolo teatrale da me realizzato e interpretato a partire da un testo di Nino Gennaro, che lo fece conoscere a un pubblico più ampio e alla critica nazionale. Alla fine, senza che io l’avessi progettata, si è così costruita questa performance composita, che ormai per me è diventata il modo migliore di presentare il libro, come se si trattasse di una chiacchierata informale in un salotto.
Con la sua natura anticonvenzionale, questo formato quanto rispecchia la personalità di Nino Gennaro?
Molto! Anche se solitamente il mio teatro ha maggior definizione, rigore. Questo non significa che questa performance non ne abbia o che Nino non ne avesse nei suoi happening. I suoi testi erano scritti infatti per essere detti, recitati in pubblico. Già quando era giovanissimo a Corleone, e poi a Palermo, scriveva questi testi potentissimi, queste poesie bellissime che recitava in prima persona, in tanti incontri con tanti altri giovani. Ma l’attività di Nino è stata ampia e variegata. Nel 1975, a Corleone, organizza in collaborazione con l’ARCI le celebrazioni dell’Otto marzo, la prima Giornata della donna. Con un piccolo finanziamento di un circolo socialista Nino creò uno spazio dove i ragazzi potevano riunirsi e parlare di tutto; andava a Palermo e riportava quei giornali che a Corleone era proibito vendere, come «L’Espresso», «la Repubblica», «Lotta continua», così da poterli discutere insieme. Nel 1977 è tra i fondatori del circolo culturale Placido Rizzotto, in memoria del primo sindacalista ucciso dalla mafia. Poi collabora alla redazione di «Città nuove», il primo giornale antimafia di Corleone, ancora attivo! Su questo fronte si è battuto in prima linea, così come è stato uno dei promotori del movimento di liberazione omosessuale in Sicilia. Non ha mai nascosto la propria omosessualità, e tutto questo lo ha reso malvisto dalla comunità di Corleone. Ciò che Nino Gennaro ha messo in atto è stata una vera e propria rivoluzione culturale, che ha messo in discussione un sistema mafioso, patriarcale, onnipervasivo al punto da insinuarsi nelle famiglie e di impedire ai giovani qualsiasi autonoma realizzazione. È stato una figura dirompente, che teneva moltissimo a far sì che Corleone non fosse considerata, come si era soliti dire, “una repubblica indipendente”, e a dimostrare che i suoi abitanti non erano solo “gregari di Luciano Liggio”, ma che c’era una parte pulita, onesta, che combatteva contro il sistema mafioso. L’intera varietà dei suoi interessi e delle sue battaglie si rifletteva nella sua scrittura.
A proposito della scrittura, quella manuale è una pratica che il poeta artigiano Nino Gennaro non ha mai abbandonato. La definiva la sua «PUNTINA SPIRITUALE. Puntina in siciliano = il lavoro all’uncinetto, la meditazione delle casalinghe», come possiamo leggere nel volume da te curato. In che modo si interseca questo con il Gennaro “drammaturgo”, il Gennaro uomo di teatro e di scrittura per il teatro?
Nino è stato uno scrittore amanuense, non ha mai utilizzato né una macchina da scrivere né tanto meno un computer. Ha sempre scritto a mano su fogli sparsi e questo ha portato ad avere oggi una materia infinita: nella sua casa a Palermo ci sono cassetti pieni di suoi scritti. Molti sono stati da me selezionati e raccolti, molti me li ha affidati lui stesso, come nel caso di La divina di Palermo. Anche il tessuto drammaturgico di La via del sexo e di Rosso Liberty è composto da una raccolta di scritti diversi. Ci sono invece alcuni testi che hanno una scrittura più definita, con i personaggi e le didascalie, tra cui il più importante è Teatro Madre, nome con cui Nino chiamò anche la sua compagnia teatrale, fondata a Palermo nel 1980. In questo testo Nino e la sua famiglia di elezione – quella creata a Palermo con Maria di Carlo, la sorella Giusi e altri amici, che si uniscono e vivono insieme – riversano il proprio vissuto. Ci sono sei personaggi che cercano di relazionarsi con le figure parentali, ma considerandole non come portatrici di un ruolo, bensì come persone con ambizioni, desideri, fragilità. In questo testo i protagonisti si rivolgono al padre, alla madre, ai nonni: è un lungo discorso d’amore. Nino Gennaro non ha nascosto di aver pensato ai Sei personaggi in cerca d’autore, ma se in Pirandello i personaggi cercano un autore che scriva la loro storia, in Teatro Madre ci sono sei personaggi autori di loro stessi.
Teatro Madre, che nasce prima di tutto come compagnia composta da non professionisti, evidenzia un’altra caratteristica distintiva di Gennaro: quella di essere un artista dei luoghi marginali, estranei alle istituzioni. Questo aspetto riguarda anche il tuo percorso di attore.
Sì, la compagnia e il progetto teatrale nascono alla luce dell’esperienza del Teatro del Vicolo di Silvio Benedetto, senza l’incontro con il quale forse Nino non avrebbe creato il suo Teatro. Nel ‘78 Benedetto, regista e pittore italo argentino, insieme all’attrice Alida Giardina, trasferì temporaneamente la compagnia del Teatro autonomo di Roma, con cui io ho iniziato a fare teatro e di cui all’epoca facevo parte, in Sicilia, all’Hotel Centrale di Palermo. Era un albergo fatiscente dei primi del Novecento, ma aveva un fascino pazzesco: tantissime camere, corridoi pieni di porte, sale ornate di specchi, camere da bagno bellissime, le tubature di una volta, gli affreschi… Benedetto riuscì a ottenere il permesso di alloggiare nell’albergo e di utilizzarne gli ambienti per gli spettacoli della compagnia. Così nacque il Teatro del Vicolo Marotta, dal nome della strada da cui vi si accedeva. Era un teatro fatto di corpi, di luci di candela, un teatro che coinvolgeva il pubblico. Allora c’era questa urgenza di relazionarsi con gli spettatori in maniera più diretta, attraverso una prossimità fisica con il pubblico. Silvio Benedetto proponeva gli autori su cui lavorare – Antonin Artaud, Yukio Mishima, Michel de Ghelderode, Pierre Klossowski – e noi ci riconoscevamo nelle loro parole e ce ne servivamo per parlare della nostra interiorità. Nino, che si era trasferito insieme a Maria di Carlo a Palermo, entrò in contatto con questa particolare realtà teatrale e ne rimase profondamente coinvolto, tanto da voler poi fondare una propria compagnia, altrettanto singolare. Teatro Madre portava infatti i propri spettacoli di casa in casa, nei club, nelle discoteche, ma soprattutto nelle abitazioni degli amici, con un registratore portatile e quattro candele come oggetti di scena. I membri erano non attori professionisti, ma operai, disoccupati, studenti fuori sede, poeti, che si riunivano per mettere in scena il proprio spettacolo come un tentativo di potersi riconoscere attraverso l’incontro con gli altri.
Nella lettera di apertura del libro affermi di «non possedere il dono della scrittura» e che per questo a volte non rispondevi ad alcune lettere di Nino, ma dici anche di avergli “scritto” in altro modo, con il corpo e con la voce. Che rapporto hai con la scrittura e come la scrittura ha intessuto il tuo rapporto con la scena?
Sì, io non mi ritengo un bravo scrivano, per cui, di fronte alle lettere meravigliose di Nino, preferivo chiamarlo: così facevamo delle lunghe chiacchierate al telefono. Ma penso di avergli scritto anche in altro modo, attraverso il lavoro attoriale: i testi che ho portato in scena sono mie interpretazioni degli scritti di Nino, filtrate dal mio sentire e dalla mia concezione del fatto teatrale. È inevitabile trasformare un testo che ci viene affidato, ma penso che un autore-attore sia felice se c’è un altro pronto a prendersi cura della sua scrittura. Quando infatti ho proposto a Nino di adattare le sue parole per la scena, lui ne è stato molto contento.
Per quanto mi riguarda, anche se in passato non ho scritto molte lettere e questa abitudine si è ormai persa un po’ per tutti, continuo a scrivere su carta. Devo poter fare scarabocchi, correggere, cancellare quello che ho scritto sul quaderno. La diffusione poi avviene necessariamente attraverso il computer. Prima però ho bisogno di scrivere manualmente. È un’abitudine e una necessità, dovuta anche alla sensazione di maggiore libertà di fronte alla pagina concreta, alla dimensione fisica del rapporto con la materia. Nino non ha mai abbandonato questa pratica: scriveva a volte in corsivo, altre in stampatello, faceva tanti disegni, collage con fotografie… E di questi nel libro troviamo molti esempi.
«PRIMA CHE VI UCCIDANO UCCIDETEVI». «O SI È FELICI O SI È COMPLICI». Sono parole di Nino Gennaro, in cui Lina Prosa riconosce la volontà di «ritualizzare il rapporto politico tra malattia, omosessualità e potere». Attraversare la propria morte come parte integrante di una vita di cui si rivendica tutta la legittimità e la libertà. Ha ancora un peso importante parlare oggi esplicitamente di AIDS?
Nino ha vissuto gli anni in cui questa malattia ha preso il sopravvento e non era facile parlarne. Anche adesso del resto lo si fa poco. Questo anche perché l’AIDS, di cui i primi casi riconosciuti risalgono agli inizi degli anni Ottanta, veniva ricondotta soprattutto a rapporti sessuali e principalmente tra persone omosessuali, e quello che riguarda il corpo e la sessualità è spesso percepito come qualcosa di proibito di cui non si può parlare. È una malattia che ormai sappiamo quanto possa riguardare tutti e bisogna parlarne come si parla di qualsiasi altra. Per Gennaro era esattamente così, tanto che scriveva: «l’AIDS, la TBC sono fatti contingenti, riguardano la mia carcassa». Per Nino, inoltre, i rapporti sessuali, anche occasionali, avevano un valore: non accettava che si sminuisse l’incontro con un’altra persona, ne riconosceva il valore a prescindere dalla dimensione fisica o spirituale in cui avveniva. E così l’amore, non solo quello romantico, può essere anche un atto rivoluzionario o creativo. A distanza di tanti anni capisco come per Nino l’amore assumesse anche un valore politico: amore come impegno, che richiede cura, attenzione, considerazione.
Nino è stato per me anche un maestro di vita. Di essa ha rivendicato con forza, come parte integrante, anche la morte. Marco Palladini, scrittore, drammaturgo e critico teatrale, nel contributo Due o tre cose che penso di Nino Gennaro, inserito nel programma cartaceo di Divinatour, completò la frase «O SI È FELICI O SI È COMPLICI» con «della morte». Nino in una lettera gli rispose così: «No della morte, Marco, ma di QUESTO SISTEMA DI MORTE! SISTEMA TARDO MAFIOSO IMPERO! […] Tutta la mia vita, tutta la mia produzione vogliono dire e dicono dei nostri territori-corpi colonizzati da fascismi, mafie, clericalismi, oppressioni, repressioni e di lotta senza quartiere per dis/interiorizzare, non collaborare, perché il capolavoro di ogni potere è rendere labile e annullare i confini tra vittima e carnefice, farti COMPLICE del suo dominio, della sua logica di dominio, mondo di lutto di sottomissione di psicofarmaci di miseria e morte. Ripeto: io dico no, Marco, A QUESTA MORTE!».
a cura di Serena Chiaramonte e Emma Vanni
in copertina: Massimo Verdastro e Nino Gennaro, foto ufficio stampa
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #3