Nella villa in cui Čechov ambienta l’esile vicenda di Zio Vanja, il tempo – in una dimensione di estenuante, sfiancante durata – sembra potersi manifestare soltanto al passato. Quando Vanja, poco dopo il suo ingresso in scena, descrive con feroce astio Serebrjakov, ricorda come «da venticinque anni» questo grigio professore tenga lezioni, o scriva saggi, «senza capire assolutamente nulla in materia». «Da venticinque anni» il cognato «rimastica le idee altrui», e sempre «da venticinque anni riempie d’acqua il mare». Nella scena successiva è la madre, Marija Vasil’evna, a esser oggetto del pungente sarcasmo di Vojnickij: «da cinquant’anni (…) parliamo, parliamo e leggiamo opuscoli. Sarebbe ora di smetterla». Sonja ama invece Astrov «da sei anni», sei anni trascorsi in quella tenuta che, insieme alla zio Vanja, ha curato e amministrato, quotidianamente, «per dieci anni». Al futuro, d’altra parte, sono coniugati solo i sogni di immobilità e requie – «moriremo rassegnati», «sentiremo gli angeli», e soprattutto «riposeremo… Riposeremo! Riposeremo!» – nei quali Sonja vede una debole speranza di consolazione. Eppure, sempre nel primo atto, Vanja afferma con sicumera che «non esiste il passato», che le sciocchezze, la noia, le fatiche che hanno costellato un’intera esistenza non possono offrire alcuna sostanza ai giorni e alle settimane: così, le stagioni ormai fluite – in lavori umilianti e monotoni, invidiando gli altrui, immeritati successi – appaiono impalpabili, vuote, irraggiungibili non perché perdute, ma perché del tutto assenti.
È un’efficace traduzione scenica di quest’ambigua ontologia del tempo a contrassegnare visivamente lo Zio Vanja diretto da Leonardo Lidi, e presentato in prima assoluta all’interno della sessantaseiesima edizione del Festival dei Due Mondi: privato della sua profondità, il palco del Teatro Caio Melisso di Spoleto è adesso ridotto al proscenio, sul quale Nicolas Bovey impone una monumentale parete di betulla. Dietro di essa, inaccessibili agli sguardi, si stagliano gli inciampi, i sogni, le svolte che hanno condotto, in questo presente oppresso dal rimpianto, un gruppo di individui colti nel vuoto scorrere delle ore; davanti, nei pochi centimetri aperti al movimento, una panca si mimetizza con le neutre sfumature del legno, costringendo attrici e attori a una bidimensionalità ortogonale. Già nel suo indimenticabile Spettri, con cui vinse il bando per registi under 30 promosso all’interno della Biennale College Teatro 2017, Lidi chiuse gli interpreti in uno spazio d’azione ridotto, dominato da una lunga seduta; oggi come allora i fantasmi di una vita – là ambigui segreti, qui velleità e passioni represse – minano le relazioni e avvelenano i dialoghi. Secondo capitolo di un progetto triennale dedicato al drammaturgo russo – preceduto da Il gabbiano e che vedrà compimento con Il giardino dei ciliegi – questo Zio Vanja sembra così costituire una tappa di una ricerca ben più stratificata, che il regista piacentino conduce con rigore: il percorso di Lidi si dipana infatti come un’esplorazione dell’universo familiare, e con esso degli abissi di infelicità in esso celati. Ecco Ibsen, ecco Čechov, ma ecco anche il Tennessee Williams dello Zoo di vetro, diretto da Lidi nel 2019, o le derive – familistiche, più che famigliari – sondate nel 2021 con La casa di Bernarda Alba di Lorca e con La signorina Giulia di Strindberg. Eppure – ed è solo uno dei pregi della traiettoria delineata – questo sguardo non è mai stato microscopico o circoscritto: le creazioni di Lidi hanno sempre affiancato, al nucleo incandescente delle relazioni tra genitori e figli, tra fratelli e amanti, una galassia di immaginari più ampia delle mura domestiche. La rivelavano in Spettri gli estratti audio di Tutto il calcio minuto per minuto, oppure nello Zoo gli spezzoni video di un celebre film di Topolino; le voci di Umberto Tozzi, di Raf, dei New Trolls, costellavano il procedere delle drammaturgie, riflettendone i significati in una memoria che definiremmo “nazionale”, non soltanto collettiva. L’arte di Lidi si dispiega come un acuto scavo nella mitopoiesi italiana, così che possano emergere gli inconsueti mattoni – canzoni da autoradio e da lunghi viaggi verso il mare, trasmissioni ascoltate in indolenti pomeriggi, oppure fotografie da rotocalco, da catalogo di abbigliamento – che hanno edificato un’identità sotterranea verso la quale, forse con stupore, proviamo una nostalgia dolciastra.
E in una non scontata – ma in fondo, non così sorprendente – combinazione, sono adesso Giorgio Gaber e Freak Antoni a poter costituire, nelle parole del regista, i poli lungo i quali disegnare un meridiano di senso di questo Zio Vanja: gli amatissimi padri nobili di una riconoscibile irriverenza, di una beffarda, demenziale attitudine a restituire l’orrore del tempo in una cifra disincantata e ironica. I primi, fulminanti istanti, sono sufficienti a rivelare la temperatura che attraverserà la creazione: uno Scottish Terrier nero, silenzioso e spaesato, percorre lo stretto corridoio che separa la parete lignea dal proscenio, mentre Vanja arranca rallentato da una scarpa sfilatasi dal piede. L’improbabile eroe eponimo ha il volto di Massimiliano Speziani, i pantaloni marroni di tessuto spesso di chi è abituato a lavori di fatica, e la camicia rosa abbottonata fin sotto al mento di chi ciò nonostante aspira a un’eleganza di superficie: la brillante soluzione cromatica del costume, firmato da Aurora Damanti, amplifica quel disorientamento esistenziale e quell’emarginazione sociale dalle quali Vanja cerca invano un riscatto. Ma è a terra, sdraiato vicino a quella vecchia scarpa, che l’uomo permane nelle sequenze iniziali dello spettacolo: già perdente, già annichilito da inutili desideri, da una banale ordinarietà. E qualcosa è accaduto anche all’anziana, straordinaria balia vivificata da Francesca Mazza, con lo sguardo vacuo incorniciato dai bigodini e una sigaretta stretta tra le labbra, oppure all’Astrov ozioso, sbruffone e sguaiato di Mario Pirrello: tutti, in questo angolo di Russia così simile alla provincia italiana dei tardi anni Sessanta, sembrano portare nell’abbigliamento, nella gestualità, nel timbro della voce, le tracce cristalline di una sconfitta.
Chirurgico, il lavoro attorale di Zio Vanja è epifenomeno di una preziosa tendenza in atto nella scena nostrana, quasi una risposta a quella scomparsa dei gruppi di cui molto si è scritto. Se le locandine degli spettacoli non registrano ancora il cambiamento, e testimoniano singolarità e vertici di ciascuna produzione, un’imprevista e non rivendicata rinascita della dimensione collettiva è tuttavia evidente in quegli ensemble di interpreti che completano, coadiuvano, traducono il pensiero autorale nel suo svolgersi progettuale. È il caso, ad esempio, delle collaborazioni di lacasadargilla, che vede accostare a un nucleo stabile di membri una rete di drammaturghe, attori, artisti visivi; ma è anche il caso di Lidi, che sceglie di affidarsi, e affidare una propria intuizione, a un solido gruppo artistico con il quale percorrere una strada pluriennale, in costruzione progressiva. Nessun approccio teorico sembra determinare questa scelta, quasi che le implicazioni politiche ed etiche, l’eco sistemica di un tale processo, siano aspetti secondari, se non del tutto irrilevanti, della costruzione spettacolare (e forse l’appannaggio di un’epoca passata, più impegnata negli interrogativi intorno alle strutture con le quale dare forma alle proprie idee): eppure gli esiti di questa tessitura appaiono nitidi nella loro qualità.
In questo Zio Vanja, del quale fanno parte attrici e attori che già più volte hanno lavorato con Lidi, il risultato è di altissimo rigore: impressionante è la cura dei dettagli, la vertiginosa attenzione prossemica con la quale gli interpreti agiscono il lacerto di spazio scenico a disposizione. Penso all’ossessivo tic della njanja Marina, quell’accarezzare il polpaccio sinistro con il piede destro, oppure alla postura timida e remissiva – le punte dei piedi en dedans, in anonime scarpe bianche di tela – con cui la vibratile Sonja di Giuliana Vigogna accompagna il fluire tenero delle sue confessioni, o ancora a quel triangolo pittorico che vede in un vertice il vulcanico Astrov di Pirello mentre in piedi, smargiasso, osserva con desiderio Elena – efficace Ilaria Falini, capigliatura prodigiosa e attitudine da annoiata signora borghese – seduta alla sua destra, ignaro dello sguardo di dolcezza che Sonja gli rivolge alle spalle. Accanto a loro, Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Angela Malfitano, Tino Rossi completano l’umanità ora dolente, ora rabbiosa – finanche ammutolita, ridotta a un’onirica maschera senile – che abita la tenuta di Serebrjakov. Ma è il Vanja di un gigantesco Speziani a conquistarci: il procedere rapido delle parole, così da nascondere qualsiasi indecisione ed evitare il rischio di un ripensamento, di un’autocensura; la posa contratta, pronta a sciogliersi un un subitaneo, bizzarro tentativo di approccio nei confronti di Elena; quell’imbarazzo, colmo di umiliazione, che gli rabbuia il viso quando contempla, involontariamente, il bacio tra Astrov e la moglie di Serebrjakov. Quanto astio nascondono gli scambi dialogici che intercorrono tra Elena e Astrov, o tra Elena e Vanja, o le interpolazioni così surreali di Marija Vasil’evna e del povero Telegin; quanta mortificazione si annida nel gradasso Astrov, e livore nell’infelice Vanja: sotto la patina della commedia, si sa, Čechov coglie il dolore del mondo. Lidi agisce su questa frizione con consapevolezza: eppure, sembra dirci, è fin troppo facile leggere Zio Vanja come una tragicommedia, che «tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto». Mentre Vanja tenta di uccidere Serebrejakov una volta, e una volta ancora, sempre più goffamente, sempre più disperatamente, a risuonare è così Vesti la giubba, l’aria dei Pagliacci di Leoncavallo con il suoinvito al riso del clown dal «cuore infranto». Le risate gregarie, registrate come in una qualsiasi sitcom, esagerano questa posticcia adesione a un meme: a un’interpretazione dell’opera di Čechov che, suggerisce Lidi, è fin troppo ovvia e piana, debitoria di una temperie che divora, mastica ed espelle elementi culturali, filosofie, sistemi di pensiero e iconografie, restituendocele svuotate e vane.
Il proto-ecologismo di Astrov, la sua lunga denuncia della devastazione dei boschi, della scomparsa dei «cascinali, fattore, eremi, mulini di una volta» a causa di un «degrado che deriva dall’inerzia, dalla più completa mancanza di sopravvivenza», offre così a Lidi l’occasione per proiettare sulla parete di legno disegni infantili, schizzi giocosi di un mondo illusorio, di un Eden col quale abbiamo nutrito la nostra falsa coscienza. L’unica realtà fotografica, cronachistica, è quella di un villaggio distrutto, da chissà quale catastrofe o da chissà quale conflitto armato: eppure anche questa immagine è destinata a scomparire, sommersa dal rumore bianco che coprirà le nostre voci e oscurerà l’immagine. «Riposeremo!», certo, sospira Sonja tra le lacrime, al termine di questo struggente, magnifico Zio Vanja: ma è una pace che somiglia al buio, che inghiotte, uno alla volta, ciascun attore, e tutti noi.
Alessandro Iachino
in copertina: ©Festival dei Due Mondi | Andrea Veroni
ZIO VANJA
regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival Dei Due Mondi