L’ultimo dibattito pubblico italiano dedicato alla figura del dramaturg, il Simposio: Drammaturgia della danza organizzato un mese fa da Anghiari Dance Hub, terminava, dopo una giornata ricca di riflessioni e dibattiti, con una domanda – un po’ provocatoria – dal pubblico: «Ma quindi… il dramaturg che cos’è?».

Talvolta si ha l’impressione che questa figura sia più interessante, in buona parte del panorama performativo, per gli interrogativi e le speculazioni sorti dalla sua definizione piuttosto che per l’effettivo ruolo che può assumere. La parola tedesca, con la sua sonorità cavernosa e piena di fascino, è molto più diffusa nei titoli dei convegni e nei saggi degli studiosi che nelle locandine dei teatri. Da noi, oltre a un altro recente simposio (RE: SEARCH_ DANCE DRAMATURGY) sulla drammaturgia della danza, sono stati un convegno presso la Civica Scuola Paolo Grassi del ciclo Walkie-Talkie. Incontri fra testo e scena del 2003 e poi il libro – introvabile – Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote di Claudio Meldolesi e di Renata Molinari (pioneristica dramaturg di Thierry Salmon) del 2007 ad aprire il dibattito su un profilo nuovo, che qualcuno immaginava potesse trasformare radicalmente il panorama teatrale italiano.

Così non è stato, eppure articoli e convegni non si sono fermati: alla scuola di ERT Emilia Romagna Teatro, sotto la gestione di Claudio Longhi, è stato attivato il corso annuale di specializzazione “Dramaturg internazionale” (2018/2019, 2019/2020) e il dramaturg tedesco Jens Hillje ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Biennale Teatro 2019 diretta da Antonio Latella.

Tra la vertigine della definizione e le difficoltà nell’affermarsi a livello professionale, il dramaturg si profila come una figura fortemente ambigua e sfuggente. Tutte queste discussioni teoriche, premi e iniziative più o meno istituzionali, infatti, rivelano almeno due cose (che non valgono solo per l’Italia): da un lato la difficoltà culturale nell’inquadrare questo ruolo professionale (il cui termine è in italiano rischiosamente vicino alla drammaturgia), anche da parte degli addetti ai lavori; dall’altro la sensazione (da parte di pochi) di una “carenza” di dramaturg, e dunque la necessità di attivarne le funzioni, nel contesto teatrale, coreografico, performativo.

Kathryn Ricketts, Denise Fujiwara, Tom Stroud e Tama Soble in “Making Waves”, metà anni ’80 (per gentile concessione di Dance Collection Danse)

Per cominciare a dipanare tante difficoltà di comprensione, può forse essere utile ripercorrere la storia del teatro. Tutto ebbe inizio con Gotthold Ephraim Lessing, che a metà Settecento cominciò a programmare la stagione del teatro nazionale d’Amburgo, riflettendo sul repertorio drammaturgico nella volontà di rifondare il teatro di prosa tedesco. Seppur con le dovute differenze, è a questa tradizione tedesca (passando per il Berliner Ensemble di Brecht) che si ricollegano oggi le équipe di dramaturg che lavorano stabilmente nei teatri e in centri di produzione di molti paesi dell’Est Europa: lo stesso Hillje, fino a poco tempo fa dramaturg presso il Maxim Gorki Theater di Berlino, definisce il dramaturg, in un’intervista per Teatro&Critica, come «il “pensatore”, il “cervello del teatro”, il che significa che è colui o colei che vede, ascolta, riflette e restituisce alle altre persone: gli attori, il regista, il pubblico», dando «forma a una politica artistica propria di un teatro».

Questo dramaturg dentro il teatro, che lavora alla scelta dei testi e ai temi degli spettacoli, alla mediazione culturale con i pubblici e segue le produzioni accanto ai registi, si differenzia da una versione molto meno stabile, legata a singole compagnie e collettivi o ad artiste, coreografi o registe. Quest’ultima dramaturg freelance è una figura più diffusa e naturalmente ha poco a che fare con istituzioni e centri di produzione: al contrario si inserisce completamente nei processi artistici, ne cura ricerche e pratiche, può essere responsabile della drammaturgia a patto che la si intenda in senso ampio, ovvero come struttura e percorso della pièce.

Negli ultimi venti o trent’anni, tale figura ha visto una lenta ma progressiva diffusione e soprattutto ha assunto caratteristiche fra le più disparate: si va dalla dramaturg come sguardo esterno, testimone, prima spettatrice in sala prove al dramaturg estraneo ai processi collettivi, ma coinvolto a livello più intellettuale, co-creatore, assistente alla regia/coreografia. La dramaturg in questione è insomma una curatrice di processi artistici su diversi piani, astratti e concreti, sentimentali e politici, e così via. Vista da fuori, la sua caratteristica principale – e non a caso la sua diffusione avviene in un orizzonte sempre più post-drammatico, non logo-centrico, di rottura rispetto alla triade regista-drammaturgo-attore o al binomio coreografo-danzatore – è la fluidità: il dramaturg abita le soglie e i margini, il suo lavoro è rizomatico, sotterraneo, non emerge mai.

Dramaturgy is a limited profession. The dramaturge must be able to handle solitude: he/she has no fixed abode, he/she does not belong anywhere. The work he does dissolves into the production, becomes invisible. He/she always shares the frustrations and yet does not have to appear on the photo. The dramaturge is not (perhaps: not quite or not yet) an artist. Anyone that cannot, or can no longer, handle this serving – and yet creative – aspect, is better off out off it.

Marianna van Kerkhoven (1946-2013)

Gli scritti degli anni Novanta di Marianne Van Kerkhoven (1946-2013) rappresentano una sorta di “Drammaturgia d’Amburgo 2.0” nella storia di questa figura. In questo breve e intenso articolo-manifesto, Looking without a pencil in the hand (1994), la dramaturg fiamminga fissa i nuovi orizzonti di una figura destinata a popolare l’area belga e olandese, per poi diffondersi in tutta Europa: una figura per definizione fantasmatica.

Non è un caso se in Italia, tra i pochi dramaturg “affermati”, quasi tutti abitino il panorama della danza, della performance, del teatro sperimentale. Tra questi c’è sicuramente Piersandra Di Matteo, dramaturg per la maggior parte delle opere di Romeo Castellucci. La sua curatela di un recente numero della rivista Sound Stage Screen ha il merito di portare in Italia le riflessioni di Kerkhoven e altre dramaturg e teorici del performativo, come André Lepecki, Florian Malzacher e Eva-Maria Bertschy:

The dramaturg thus goes back and forth between research and invention, reflection and creation, details and an all-embracing view, and ultimately assembles the conceptual structure of the pragmatic space within which the work is disclosed. Dramaturgs suggest anchors that provide points of reference for the entire process. They create links between ideas and clarify how the various parts of the work can be harmonized according to an internal logic. They make inventories of the directions the work is taking, and indicate how these directions could gain intensity. They may also act as a disturbing factor, to enrich the material in terms of dynamics. They are not guardians of predetermined positions, but mobile vectors for interaction: they use a methodology that is rigorous but also based on unexpected resonances, due to a “poetics of errantry” that implies straying from an expected course, attentive to the echoes produced by forms of excursion, a predisposition to make room for what is unfamiliar. 

This is where they can fully contrast forms of self-indulgence that might lead directors and choreographers to fall back on previously used formal outlines, preferences, and aversions. By its very nature, this is a “dispersed activity,” since their work literally dissolves into the production. They melt and become invisible, incorporated into the work itself. This invisibility not only characterizes the dramaturgs’ work, but also their very own persona, which remains in the shadows, often compared to a ghost.

Ormai è chiaro che la dramaturg sfugge alle definizioni come i fantasmi con gli specchi. Forse da ciò derivano le difficoltà nel riconoscimento professionale e artistico-culturale di questa figura. Da questo punto di vista, se in Italia equivoci, tradizionalismi e povertà produttive contribuiscono a rimetterne ancora in discussione l’effettiva necessità, anche altri territori hanno problemi simili: non ci stupiamo, allora, se negli Stati Uniti si creano delle “aziende” di dramaturg che offrono servizi e consulenze artistiche, oppure che in Gran Bretagna la rete dramaturg’s network offra supporto per contratti atipici, ancora non integrati nella burocrazia dello spettacolo dal vivo. Una prima ricognizione pare confermare la natura instabile, precaria e ambigua di questa professione.

I prossimi articoli della rubrica Calapranzi vorrebbero attivare una ricognizione molto diversa, non tanto teorica quanto empirica, per conoscere pratiche, strumenti e momenti di questa “poetica dell’erranza” (Glissant), piuttosto che tentare la complessa e insidiosa via della definizione. Dopo i focus sulla drammaturgia sperimentale, questo nuovo Focus dramaturg segue fino alle estreme conseguenze le tensioni post-drammatiche degli ultimi anni, mettendo al centro non più i testi teatrali (o ciò che ne resta), ma materiali relazionali, che interrogano le varie componenti dei processi performativi. E si pone una sfida da veri e propri detective dell’horror: far riemergere il fantasma, portare a galla tracce nascoste del suo passaggio, del suo buon infestare la scena contemporanea.

Riccardo Corcione


foto di copertina: Marianne van Kerkhoven al Kaaitheater di Bruxelles, dall’archivio di van Kerkhoven