Lo spettacolo si chiama Processo Galileo, non “Processo a Galileo”. La mancata preposizione è il primo indizio di quello che i due registi, Andrea De Rosa e Carmelo Rifici, hanno voluto portare sul palco: il ruolo della scienza all’interno della nostra società.
In dialogo con questo complicato rapporto tra scienza e pensiero umanistico, la seguente ucronia immagina una svolta inedita nella vita di Galileo: egli, stanco di non sentirsi compreso e apprezzato dalla società di cui faceva parte, decide di andarsene, incoraggiando menti affini a seguirlo. Erano tante le persone che desideravano vivere dedicandosi solo a ciò che potevano misurare e dimostrare, e con il tempo essi presero la forma di una società “a parte”: la società galileiana.
Nel 1642 Galileo Galilei morì, ma non si poté dire lo stesso di questo nuovo modo di vivere isolato che, seppur inconsapevolmente, egli aveva trasmesso a così tante persone amanti della scienza. Più gli anni passarono, più questo legame tra loro si consolidò, così come l’accentuarsi della distanza rispetto a un modo di pensare più letterario e umanistico, anch’esso in continuo sviluppo. Se c’era chi guardava con disprezzo questo nuovo modo di vivere tutto dedicato alla scienza, perché considerato vuoto di spirito e pronto a tradurre matematicamente ogni cosa, c’era una parte che se ne sentiva profondamente attratta, perché desiderosa di vivere in un mondo più razionale. Questi due diversi modi di guardare alla natura umana e a tutto ciò che la riguardava con il tempo si tramutarono in due distinte società: la società galileiana, e la società classica. Esse acquisirono, di conseguenza, anche due strutture differenti: se la prima puntava al controllo e al progresso, pertanto ammetteva solo ciò che ritenuto praticamente utile, la seconda ripudiava il materialismo, e cercava di coltivare solo la bellezza nel mondo.
Stabilito che non intendevano entrare in conflitto, ma neppure di aver l’una bisogno dell’altra, esse decisero di far scegliere liberamente ai cittadini in giovane età di quale società far parte, tenendo però bene a mente che ognuno, una volta fatta la propria scelta, non avrebbe beneficiato del sapere e delle conoscenze della società scartata.
Se sulla carta questa separazione tra modi di pensare sembrava funzionare, nella realtà essa metteva in difficoltà molte persone, che si vedevano costretti a dover rinunciare a ogni nuova inclinazione, considerata eretica.
Era il 1875 quando un giovane Georges Seurat, compiuti i sedici anni, decise di seguire la società classica, perché da sempre attratto dal mondo dell’arte. Seppur profondamente convinto del suo amore per la disciplina, egli non poté mai scoprire la puntualità geometria delle composizioni, né la tecnica della tecnica della prospettiva. Il mondo non conobbe mai Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte.
La società galileiana, alimentata da questo profondo senso di rigore e razionalità, iniziò con il tempo a privarsi di ogni forma di bellezza e, dunque, della speranza. Come paradossale risultato, erano sempre più le persone che perdevano l’ispirazione di ampliare la propria mente: non esisteva l’architettura, esisteva la praticità di vivere in delle pratiche e identiche abitazioni; non esistevano le sfumature, esisteva la netta divisione tra i colori. C’era sempre qualcosa in più da scoprire, ma si era perso lo stimolo a cercarlo.
La società classica, d’altro lato, perse il progresso e il senso del vero. Ognuno era portato a costruirsi un mondo personale e a chiudercisi dentro, poiché non esisteva un principio comune di verità. Non c’era vera unione, solo tante menti in assoluta libertà.
Questa divisione tra le società era nata con l’intento di lasciare che ciascuno seguisse le proprie attitudini e il proprio modo di pensare. Aveva invece portato il mondo ad impoverirsi. Il mondo era incompleto, perché aveva rinunciato alla complessità.
Elisabetta Brozzi
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica