di Edoardo Erba
regia di Lorenzo Loris
visto al Teatro Out Off _ 14 gennaio-2 febbraio 2014

Due uomini, Manuel Segovia e Isidro Velazquez, vivono nel villaggio messicano di Ayapa a soli 500 metri di distanza l’uno dall’altro, ma sono anni che non si rivolgono la parola per cause ignote. Sono, però, gli ultimi due individui a conoscere ancora il Nuumte Oote, la “vera voce”, idioma a cui gli antropologi si interessano con fervore, temendone la completa estinzione. A questo fatto di cronaca, riportato dal Guardian il 13 aprile 2011, si ispira il fantasioso «western lombardo» di Edoardo Erba che ha debuttato all’Out Off di Milano per la regia di Lorenzo Loris.

Sullo sfondo di uno stravagante e folcloristico paesaggio, fatto di zucche, attrezzi da falegname, sombreri e selle da cavallo si svolge l’incontro/scontro tra Isidro (Mario Sala) e Manuel (Gigio Alberti), due personaggi tanto opposti quanto complementari: il primo, burbero e solitario, ha trascorso la sua esistenza tra le quattro mura del suo orto a fabbricare cornici e coltivare pomodori, rifuggendo ogni piacere mondano; il secondo, al contrario, istrionico, affabulatore e spaccone, ha sedotto decine di donne e, tra rapine e omicidi, ha vissuto sui monti della Catena Madre come un bandito sempre in fuga. Accanto ai due un’ironica ed esuberante Monica Bonomi che si divide tra il doppio ruolo di Felipa, la buffa serva-padrona di Isidro, ossessionata nonostante l’età dall’idea del matrimonio, e la loquace ed euforica Maricruz, giovane madre dello stesso.

In questo Messico immaginario e rocambolesco, la “vera vuz” si incarna in un dialetto pavese di antica origine, dal forte potere evocativo e di rara schiettezza. E proprio questa lingua aspra e gutturale, più affilata e truce di una spada, riporta in vita dalle viscere della memoria, insieme ai più dolci ricordi, un antico rancore che porterà Manuel e Isidro ad una resa dei conti finale, procrastinata con inumana pazienza per ben 40 anni.
Non manca certo per lo spettatore meno esperto qualche ostacolo linguistico, ma una recitazione intensa ed espressiva e una ricca sottotitolazione generano un universo affascinante e genuino, alla portata di tutti. Un coraggioso e provocatorio omaggio a un idioma che rischia di scomparire senza lasciare traccia ma, forse, anche una buona pista per ritrovare un linguaggio teatrale, credibile e autentico, che riscopra le  radici e sappia parlare al pubblico in modo diretto ed efficace.
Chi l’avrebbe mai detto che tanta modernità si celasse in un western in salsa dialettale?

Alessandra Cioccarelli