di Harold Pinter
regia di Roberto Trifirò
visto al Teatro Out Off di Milano_26 Settembre-14 Ottobre 2012

Tre personaggi in scena: due donne, Kate e Anna, e un uomo, Deelay. Restano immobili tutto il tempo necessario al pubblico per sedersi, bisbigliare, guardarsi intorno, nell’attesa che le luci di sala si spengano. Un’immagine sfocata è quella che Roberto Trifirò sceglie in apertura della bella messa in scena di “Vecchi tempi”, opera di Harold Pinter del 1971. La commedia affronta il tema della memoria, intesa non come conservazione del ricordo bensì come forza creatrice individuale. Il passato diventa così un fatto privato non condivisibile con gli altri e il linguaggio – che in tutta l’opera di Pinter è uno strumento ambiguo e minaccioso – è qui impossibilità di comunicazione spinta alle estreme conseguenze. Nemmeno sui ricordi di gioventù, i vecchi tempi, che sempre uniscono e rinsaldano i rapporti, è possibile trovare un accordo: solo al pubblico, quindi all’estraneo, è data la possibilità di ricostruire quello che è accaduto nel passato dei tre quarantenni. Mentre i protagonisti sembrano progressivamente perdere il contatto con la realtà, lo spettatore riesce mano a mano a riunire e far combaciare i pezzi di una memoria smembrata, fino a giungere ad un finale che si chiude a cerchio.
I testi di Pinter sono molto precisi nelle indicazioni di scena ed è per questo difficile intervenire sul testo senza rischiare di snaturarlo. In questo senso l’operazione di Trifirò (che, oltre a dirigere lo spettacolo, ne interpreta il protagonista maschile) è davvero ben condotta: per accentuare lo straniamento pinteriano – che si sviluppa in crescendo nella vicenda – il regista sceglie con cura le pause e i movimenti degli attori. I personaggi si spostano continuamente lungo linee rette, allontanandosi e avvicinandosi senza meta apparente; costantemente disinteressati alle parole proprie e altrui, paiono perdersi nei lunghi silenzi che si susseguono tra una battuta e l’altra e nel vuoto che sembra aleggiare nella stanza.
Anche la scenografia semplice ed efficace di Alessandra Rosso contribuisce a creare la percezione di un ‘non luogo’: il palcoscenico è coperto di brandelli di cartone (materiale di cui sono fatti anche i tre divani presenti sulla scena) che fanno trasparire il disfacimento nascosto dietro l’immagine fredda del salotto. Un telo grezzo semitrasparente separa il palco e la platea come un diaframma, creando un effetto offuscato che ricorda le immagini delle televisioni di una volta.
Trifirò riesce insomma a imprimere alla messa in scena una personale cifra stilistica, pur muovendosi nel rispetto assoluto dell’originale e in una prospettiva di approccio al testo piuttosto cauta. Non sempre convince la recitazione “sensibile e febbrile” (così nelle note di regia), che pare indecisa tra un registro naturalistico e una più forte caratterizzazione; interessante risulta invece il tentativo di arricchire con un velo di ironia, quasi ioneschiana, il personaggio maschile e coglie nel segno l’ineffabilità di Kate (Maria Ariis), che sembra fluttuare nella compiaciuta lentezza con cui pronuncia ogni battuta.

Camilla Lietti