Luca De Filippo ci lascia a 67 anni. Era apparso stanco, forse troppo, già un anno fa, quando portò in scena un lavoro poco noto e non così riuscito, Sogno di una notte di mezza sbornia. Quasi non abbiamo fatto in tempo a vederlo nella sua ultima regia, Non ti pago, la cui preparazione l’aveva impegnato per tutto il 2015. Il debutto in un centro minore, come d’uso, poi l’approdo a Napoli e a Milano, per i De Filippo piazza prediletta.
Qui, il forfait. Luca ha una discopatia, si deve operare. Saltano le prime repliche, ma poi si va avanti. Al suo posto Gianfelice Imparato. Vedendo come sono andate le cose, onore alla compagnia, che ha fatto il pienone a Milano per più di due settimane, con il peso di una diagnosi impietosa che non poteva non essere arrivata sul palco, lì dove recita anche la moglie di Luca, Carolina Rosi. Il pubblico forse già lo sapeva, lo percepiva – grazie a una forma di empatia quasi sciamanica, che certo papà Eduardo non avrebbe fatto fatica a spiegare, a modo suo – che bisognava fare arrivare gli applausi ancora più forti, lì dove Luca combatteva. Anche a detta degli operatori del Piccolo, un successo strepitoso, sera dopo sera. Alla penultima replica, con lo Strehler pieno fino in cima alla balconata, risate e sorrisi, entusiasmo, applausi a scena aperta e chiusa. Del resto il teatro può essere più bello della vita, diceva Eduardo, che Luca se l’è portato in scena che nemmeno aveva dieci anni, in Miseria e nobiltà, nel ruolo di Peppiniello, e poi l’ha presentato al pubblico a sipario chiuso con quell’orgoglio brusco di padre, in un momento commovente e profetico di ciò che sarebbe stata la loro vita sul palco.
E non deve essere mai stato facile, per Luca, imparare e crescere con quel genitore, genio instancabile e indefesso lavoratore. Luca è sì figlio d’arte, ma figlio che insegna a studiare, cercare, custodire e onorare tutto quello che di prezioso si ha in dote. Luca non ha mai fatto Eduardo, nessuno gliel’ha mai chiesto e lui non ci ha mai provato. Per questo forse era così amato. Luca aveva stipulato con la sua storia un contratto di fedeltà e onestà. E lo spettatore, che non ama essere preso in giro, capiva e rispettava.
Oggi c’è chi smonta e rimonta Eduardo, a partire dai suoi testi noti, per alcuni quasi rompendo un tabù. È giusto così. Coi classici, prima o poi, si deve scendere a patti. Tradizione, traduzione, tradimento, ora poco importa: la storia giudicherà. Ma resta la gratitudine per chi, artigiano e depositario di storie, ha difeso e tradotto un’eredità che ha trasformato il nostro teatro.
Francesca Gambarini