di Bernard-Marie Koltès
regia di Renzo Martinelli
visto al Teatro i di Milano_15 Febbraio-12 Marzo 2012

La dimensione della sala conta.
Sala grossa significa più pubblico, più soldi, più interessi. Così nel traffico teatrale milanese non è facile per le utilitarie dello spettacolo sopravvivere contro l’invadenza, spesso nazional popolare, dei SUV del palcoscenico. Chi ci prova cerca strade alternative che colmino, con spregiudicatezza e intelligenza, il vuoto lasciato dal circuito main stream.
Questo è il caso di Teatro i, realtà indipendente guidata da Renzo Martinelli e Federica Fracassi. Saldamente legato al contemporaneo e alle sue problematiche, Teatro i presenta Lotta di negro e cani, uno dei testi più noti di Bernard Marie Koltés all’interno di una stagione che già dal titolo – Nostalgia del mostro – lascia intravedere un’ostinata direzione contraria.
«Ho sempre avuto un amore nei confronti di Koltés – ha spiegato il regista – ma mi sono sempre tirato indietro, avevo ancora negli occhi il dolore dello spettacolo di Danio (Manfredini, con cui Martinelli ha lavorato in Tre studi per una crocifissione, tratto in parte da Notte poco prima della foresta, sempre di Koltés) e avevo paura di ferirmi, cosicché, per lungo tempo, ho fatto addirittura fatica ad avvicinarmi ad altri suoi testi. Poi una notte rileggendo Lotta di negro e cani, ho pensato quanto fosse attinente al manifesto programmatico di questa stagione e mi sono deciso a metterlo in scena».
Per l’occasione la sala di via Ferrari è stata trasformata in una vera e propria arena-cantiere: gli spettatori sono chiamati a presiedere allo scontro dei personaggi dall’alto di impalcature, come giudici-astanti. Come il titolo suggerisce si tratta infatti di una vera e propria lotta, uno scontro tra quattro vite disperate che si trovano a collidere in un luogo ibrido: il cantiere edile di una colonia francese dell’Africa occidentale.

La trama – quella di uomo di colore (Alboury) che viene a chiedere il corpo del “fratello” ucciso sul lavoro da un operaio razzista (Cal) e che, nella sua ricerca, si innamorerà di Léone, la donna del capocantiere (Horn) appena arrivata da Parigi- diventa il pretesto per una serie di riflessioni sull’uomo. Il non-luogo del cantiere si fa dunque metafora dell’identità umana, sempre in costruzione, sempre in cerca di sé stessa, sempre in lotta con sé e con gli altri.
L’inconciliabilità è alla base della condizione dei quattro protagonisti, fermi come monoliti nelle loro posizioni: Horn -l’inettitudine della mediazione; Cal- il disincanto che diventa disumanità; Alboury- l’ostinazione della dignità; Léone- la fragilità del candore. L’Africa, la fucina dell’uomo, fa da sfondo, alternando rumori e silenzi, unico binomio realmente intelligibile quando la diversità spoglia la lingua di ogni sua funzione. La vita, sembra suggerire Martinelli, è un rituale di (mal)formazione violento, che chiede sangue e che avrà sangue, inesorabilmente.

Martinelli imposta bene il ritmo di uno spettacolo che gli attori – Astorri e Lisma su tutti – sanno rendere teso e avvincente per i due terzi della durata. Poi, qualcosa si inceppa: che sia colpa del testo, forse un po’datato, che non riesce a sostenere l’attenzione fino in fondo, o di alcune scelte registiche meno convincenti (la danza di Horn e Cal e il cane di peluche nel finale hanno un certo sapore kitch), è difficile dirlo. Certo il lavoro rimane davvero apprezzabile, anche e soprattutto in alcune delle sue scelte più ardite (lo straniamento della colonna sonora techno, dei neon guizzanti, della scenografia, ecc .), tuttavia altre velleità registiche lo indeboliscono proprio laddove vorrebbero arricchirlo con un po’di stupore. Ma nella lotta, si sa, non importa se le distrazioni ti lasciano addosso le cicatrici dei tuoi errori, quel che conta è essersi battuti per un motivo valido e, infine, poterlo raccontare.

Corrado Rovida