Gli spettatori assidui del Festival del Teatro Antico sanno che il palco siracusano induce registi e scenografi a due opposte attitudini: c’è chi si diverte a stupire l’ampia platea con trovate e mirabolanti effetti estetici; chi invece tenta di portare a dialogo con il contesto le più sobrie e minimali prassi del teatro contemporaneo. Di norma il pubblico applaude i primi, mentre la critica elogia i secondi. In qualche fortunato caso (due su tutti: Moni Ovadia nel 2015 ed Emma Dante nel 2018) gli spettatori più diversi si trovano concordi e le divisioni vengono superate.

Talvolta invece i fattori si invertono e le carte si mescolano. È quello che sta accadendo nella prima edizione curata dal nuovo Sovrintendente Antonio Calbi (spettacoli in scena fino al prossimo 6 luglio), dove la sobrietà annoia e gli eccessi estetici si rivelano portatori di senso.

A dirigere Troiane è la francese Muriel Mayette-Holtz. Un nome forse non troppo noto in Italia, ma una vera istituzione nel tavoliere europeo. Direttrice della Comédie-Française per più di trent’anni, Mayette-Holtz è regista e attrice, e di classici se ne intende: nella sua lunga carriera ha firmato regie di Shakespeare e Moliere, Corneille e Marivaux.

In questo caso, però, l’incontro con il testo di Euripide si mostra tutt’altro che un autentico corpo a corpo. Le note di regia ci ricordano sì che Troiane è un «canto di sofferenza in omaggio alla vita» e che Euripide dipinge le donne come «vere eroine di fronte alla distruzione degli uomini» (cosa che anche una semplice lettura della tragedia potrebbe confermare); ma restano del tutto irrisolti dall’allestimento gran parte dei nodi drammaturgici del testo. Basti qualche parola per riportarli alla mente. Le donne di Troia, sconfitte e prigioniere, aspettano di apprendere il loro destino; a consolarle e a dar voce al loro dolore c’è l’irriducibile regina Ecuba (una più che protagonista Maddalena Crippa). Le notizie sono pessime, ovviamente: c’è chi verrà portata schiava a casa del nemico, chi dovrà vedere morire il proprio figlio davanti agli occhi. A fare da megafono alle decisioni dei Greci – ed è questo uno degli aspetti più ambigui e moderni dell’opera – è Taltibio, un ambasciatore senza autorità, che non è possibile contestare ma che non porta direttamente la responsabilità delle sue decisioni.

Nelle messinscene di Troiane, storicamente, si è visto di tutto: messaggeri addolorati ed empatici; autentici sadici dall’aspetto e dall’attitudine nazista; goffi fool che strappano il riso portando alla luce le contraddizioni dell’agire umano. In quest’ultima direzione sembrava essersi mossa anche Mayette-Holtz, con la sua scelta di affidare il personaggio a Paolo Rossi (che si conferma anche in questa sede un poliedrico professionista). Ma l’ipotesi resta accennata, come uno strumento esotico introdotto nell’orchestra che però si tiene in sordina. Rossi strappa risate al suo ingresso – è anche l’eco della sua personalità a portarle – facendo intravvedere le potenzialità di una interessante intuizione registica; poi però le sue battute si normalizzano in un generico imbarazzo senza potenza drammatica. E molto altro procede così, accennato ma non risolto: lo spiazzante prologo fatuo e quasi salottiero tra Posidone e Atena diviene qui un piatto scambio tra una dea “da copione”, con tanto di lancia e abito bianco, e un pacato interlocutore in chitone; il serrato confronto di natura sofistico-giuridica tra Elena ed Ecuba qui viene semplicemente e staticamente declamato.

Si ha l’impressione, in definitiva, di assistere a un radiodramma dove le geometrie dello spazio e le tensioni tra i corpi poco dicono, e poco incidono. E nulla può l’affascinante impianto scenico ideato dall’archistar Stefano Boeri: una distesa di alberi morti della Carnia che resta un suggestivo, ma improduttivo, sfondo.

Chi non conosce la produzione di Euripide farà fatica a credere che l’autore delle strazianti Troiane sia lo stesso dell’Elena (scritta solo pochi anni dopo): l’incandescente pathos tragico della prima opera viene coscientemente raffreddato e quasi messo in parodia nella seconda. Ricordate l’Elena della guerra di Troia? Quella che fugge da casa per seguire Paride e si fa inseguire dall’intero esercito di Grecia? Bene: secondo Euripide (ma non solo) si tratta di una fake news. La fedele Elena era altrove mentre un suo alter ego malandrino combinava guai al posto suo. Bando ai pianti e ai rancori, allora. Lei e l’amato marito Menelao potranno ricongiungersi e, con un po’ di fortuna, vivere felici e contenti.
Non c’è niente di più intrigante di un gioco sui generi sperimentato da un genio e così Euripide, già alla fine del V a. C., ci traghetta sornione verso il romanzesco, tra trame da feuilletton, viaggi in zone esotiche, riconoscimenti da soap opera, e rocamboleschi happy ending.

Il regista chiamato dall’Inda, il re dell’opera Davide Livermore, mostra di aver ben compreso la natura del dramma e di non essersi sottratto alla sfida. La sua Elena (nella limpida traduzione di Walter Lapini) è esattamente l’opposto delle Troiane: ogni scelta registica – estetica, attorale, di registro – è portata fino in fondo, senza timore di esagerazioni. Tanto che nei primi minuti dello spettacolo viene il dubbio di essere finiti in un luna park, tra specchi d’acqua, vascelli, paillettes e maxischermi (l’impianto scenico è a cura del regista). Ma se si è disposti a lasciare da parte riserve e pregiudizi ci si accorge presto che il registro è coerente, e che nel divertissement si nascondono coraggiose soluzioni interpretative.

Per prima cosa Livermore sceglie un immaginario di riferimento, capace di rispecchiare e rifrangere la dimensione falsamente frivola e dolorosamente farsesca del testo di partenza: è la corte del Settecento, con tanto di candelabri e calici di vino, valzer e minuetti, gonne con la ruota e pennacchi. Che dietro le danze festose e sotto le parrucche possa nascondersi la violenza più efferata, ce lo ha ricordato di recente La favorita di Lanthimos; e anche in questa operetta sarà meglio diffidare dell’affettata allegria dei protagonisti, i bravi Laura Marinoni (Elena) e Sax Nicosia (Menelao).

Ne avremo conferma nel finale, dove il velo della farsa cade e Livermore prende posizione decisa su uno degli elementi di maggiore ambiguità dell’opera euripidea. L’intera vicenda si rivela un ricordo di un’Elena anziana, che campeggia nel video mostrando rughe e dolore (vengono in mente le «tende ingiallite» e «le poltrone sfondate» del poemetto dedicato a Elena da Ghiannis Ritsos, 1972). E la vicenda del doppio? Nient’altro che un brillante esercizio di auto-fiction di una donna che ripensa al suo passato e lo trasforma per soffrire meno. L’acqua si tinge – è il rosso sangue versato dei morti – mentre un lamento piange gli errori di una vita ormai al tramonto, che ci si può raccontare ancora e ancora per autoassolversi e per dimenticare.

Maddalena Giovannelli

Le Troiane
di Euripide
traduzione di Alessandro Grilli
regia di Muriel Mayette-Holtz
progetto scenico di Stefano Boeri

Elena
di Euripide
traduzione di Walter Lapini
regia di Davide Livermore

spettacoli visti nell’ambito del Festival del Teatro Greco di Siracusa_10 maggio-6 luglio 2019