Tre drammaturghi europei, tre compagnie calabresi, tre osservatori critici: Europe Connection è una sfida che nasce dall’incontro tra il festival Primavera dei Teatri (Castrovillari, Calabria) e Fabulamundi, progetto europeo che incoraggia la circuitazione della drammaturgia contemporanea (a cura di Pav). L’idea è semplice: mettere i testi in movimento, farli trasformare durante il viaggio, adattandoli alle latitudini dove approdano. Cosa accade quando un testo austriaco arriva alle pendici del Pollino? E cos’hanno in comune la Calabria e la Catalogna? In questa pagina due dei tre critici coinvolti nel progetto provano a raccontare cosa hanno osservato.
Il capitalismo è una farsa nera
Cosa scrivono i giovani drammaturghi in Europa? Con la sua selezione di più di trecento testi, Fabulamundi offre una fotografia in buona risoluzione delle tendenze in corso: politicamente consapevoli e interessati alla sperimentazione formale, gli autori scelti da Pav non sembrano inclini all’intrattenimento.
Non fanno eccezione Maxi Obexer, Victoria Szpunberg e Esteve Soler, i tre drammaturghi presenti a Primavera dei Teatri per il progetto Europe Connection. Migrazione, stereotipi di genere, abuso di social network, relazione tra moda e mercato: nei testi scelti dalle tre compagnie calabresi coinvolte nel progetto non manca quasi nessuna delle questioni più controverse del contemporaneo. Ma non aspettatevi le più trite forme dell’engagement politico, con lunghe tirate monologiche e messaggio costruttivo da portare a casa. Anzi. Pur nelle radicali diversità di linguaggio, i tre autori sembrano condividere la volontà di spiazzare lo spettatore, e di mettere in luce nel modo più laico possibile le contraddizioni del proprio tempo. Ed ecco allora che le aporie, il sarcasmo, lo humour nero appaiono gli strumenti ideali per non accomodarsi nelle rassicuranti modalità del pamphlet a tesi.
Tutta l’intellighenzia europea è pronta a manifestare allarme per la situazione delle migrazioni e per i morti del Mediterraneo? È difficile trovare in una sala teatrale off un convinto xenofobo? Bene. Allora sarà il caso di occuparsi piuttosto dello smarrimento, delle incoerenze e dell’inazione di quella comunità politicamente corretta che si ritrova in platea. Questo sembra pensare Maxi Obexer, che con la Nave Fantasma, prende di mira curatori d’arte e giornalisti, professori universitari e politici: un’umanità che molto parla ma che poco fa e che ci assomiglia più di quanto vorremmo.
Non meno fosca la prospettiva sul presente della catalana Victoria Szpunberg che – con una intelligente distopia tra Black Mirror e Handmaid’s Tale – ci ricorda come homo homini lupus. La protagonista di The Speaking Machine, (ottimamente tradotto da Davide Carnevali) è una bambola elettrica costruita per intrattenere il suo padrone con discorsi intelligenti, quel tanto che basta prima di spegnersi e tacere al momento giusto. Ma, se guardi bene, c’è sempre un debole più debole di te che puoi schiacciare per non essere proprio l’ultimo nella scala sociale: in questo caso un cane-macchina preposto al piacere sessuale. I due schiavi 2.0 oscilleranno – come ognuno di noi – tra l’istinto di far propria la competizione che il capitalismo richiede, o allearsi in una bizzarra lotta di classe.
Se Obexer e Szpunberg mostrano una certa predisposizione alla narrazione per asindeto, che non si preoccupa troppo di raccordi e connessioni né di uno sviluppo dei personaggi tradizionalmente inteso, Esteve Soler ne fa un marchio: il suo Contro la libertà è una galleria di quadri, folgoranti declinazioni dei nostri quotidiani momenti di scelta politica – acquistare, sposarsi, comunicare. C’è chi ferma un matrimonio per chiedersi meglio cosa significa “fin che morte non ci separi”, chi guarda il cellulare mentre una donna muore al suo fianco, chi scopre lavoratori tessili a cottimo nel cassettone della camera dal letto, accanto alla biancheria intima. L’infinità (o l’illusione dell’infinità) dei possibili che ci si apre davanti, è in realtà una forma di schiavitù.
In ognuno degli spettacoli (rispettivamente curati da Teatro della Maruca/Anomalia Teatri, Compagnia Ragli e Divina Mania) il pubblico di Primavera dei Teatri ride, cogliendo farsa e grottesco. Perché i tre autori – e con loro le tre compagnie – sanno bene che per instillare il dubbio e per indurre pensiero bisogna evitare di dare conferme. E non c’è niente di più spiazzante di una risata che ti prende alla sprovvista, mentre scopri quanto sei conforme e aderente a quello che il tuo tempo vuole che tu sia.
Maddalena Giovannelli
Nulla di ciò che fai senza sforzo ha valore
Teatro della Maruca/Anomalia Teatri, Divina Mania e Compagnia Ragli si confrontano con testi che – in termini di limitazione illogica, regresso crudele, imposizione neoschiavista – hanno per tema la libertà: la libertà di migrare, di autodeterminarsi, di sopravvivere sottraendosi al ruolo o al destino che il luogo di nascita, la povertà o la mia storia individuale (la vita che ho vissuto finora) mi assegna.
Il primo elemento condiviso è dunque pre-scenico ovvero è una condizione di fatto: la vicenda che accade sul palco appartiene a un contesto regolato da pratiche di dominio una volta vergognose e oggi consuete, da atroci squilibri divenuti ormai sopportabili, da anormalità degne di denuncia diventate normalità colloquiale: è normale che il mare sia un cimitero e che gli uomini vi galleggino come pesci morti (“d’altronde la strada dell’Occidente è sempre stata disseminata di ossa” sento ne La nave fantasma); è normale che le parole servano a giustificare ogni arbitrio, ogni vizio, ogni reato (esempio: “se non fossero qui” – e cioè sfruttati lavorativamente nel sottoscala di una fabbrica – “sarebbero chissà dove a prostituirsi” viene detto in Contro la libertà); è normale che una donna sia ridotta a una macchina e che rischi di essere buttata neanche fosse immondizia (“Le auto passeranno veloci che nemmeno ti vedranno. Resterai sola e finirai per andare in malora, piena di polvere e sul ciglio della strada, smontata e sporca” dice Bruno a Valeria ne La macchina per parlare).
Gli altri elementi che tornano – data in premessa la diversità tra le compagnie – appartengono invece alla pratica d’assito: si tratta di piccoli dettagli in comune che contraddistinguono il come hanno reso le drammaturgie di partenza. Ne accenno alcuni. L’assenza, con gradazione variabile, di quarta parete (Teatro della Maruca attraversa la platea; Divina Mania vi si rapporta dialetticamente; Compagnia Ragli la osserva per un attimo, prima di illuminarla con un faro); l’utilizzo (talora preponderante) della frontalità fisica, il riassetto scenografico a vista, la necessità di video e/o di effetti sonori off (le interviste del Teatro della Maruca, visibili sul fondo; l’accumulo di icone europee proiettate da Divina Mania; le telefonate della Compagnia Ragli), una trama che – organizzata per quadri o con una linearità cronologica sviluppata per frammenti – sul palco richiede intercapedini buie, brevi soste oscure, penombre di passaggio.
E ancora. L’offerta di relitti scenici (pochi arredi, quel che resta dunque di ciò che un tempo era la scenografia) all’interno di uno spazio privo di saturazione materica; il taglio che le compagnie hanno dato ai testi originari (come vi fossero, in ognuno, fin troppe parole); la necessità – a un punto dello spettacolo – di una ricollocazione per prossimità geografico-accidentale: è il qui e ora della sala di Castrovillari per Teatro della Maruca e Divina Mania, ma anche il cane della Compagnia Ragli, «nato a Cassano Magnago, vicino Varese» nel testo della Szpunberg e che Rosario Mastrota fa nascere invece a Cassano allo Ionio, in provincia di Cosenza.
Schegge, puntelli, soluzioni sceniche che aiutano a comprendere l’aspetto in comune più interessante, quello che in definitiva davvero sembra caratterizzi il progetto: l’incontro/scontro tra una compagnia calabrese e le parole di un autore che abita altrove, parla un’altra lingua e che la Calabria, forse, non l’ha vista mai. È nella distanza di partenza (più ampia dei chilometri che separano Castrovillari da Barcellona, Berlino o Buenos Aires) che risiede il valore di Fabulamundi nella versione voluta da Primavera dei Teatri: si tratta d’una voluta induzione alla difficoltà (perché è difficile lavorare su poetica e urgenze di qualcun altro) che il festival ha offerto come un’opportunità alle compagnie perché alimentino la loro crescita artistica: rimettendo in discussione le competenze acquisite finora. D’altronde sono le difficoltà a rendere vitale un processo (nulla di ciò che fai senza sforzo ha valore, direbbe Jouvet; i limiti sono uno stimolo creativo confermerebbe Massimiliano Civica) ed è – più che il debutto, l’esito o gli applausi della “prima” – proprio il processo che interessava (in termini formativi) a Primavera dei Teatri. Ecco: formare una nuova generazione di teatranti calabresi. E sfruttare (Fabulamundi compresa) ogni occasione per farlo.
Alessandro Toppi