Uno spettacolo anticapitalista è in tournée globale da undici anni: già questo invoglierebbe a scandagliare le ragioni della tenuta, drammaturgica e sociopolitica, di Have a Good Day!, «opera contemporanea per dieci cassiere, suoni del supermercato e pianoforte» (questo il sottotitolo). Il lavoro era già stato presentato anche in Italia: al Teatro Argentina di Roma, nell’ambito del Festival Lituano delle Arti FLUX del 2018, e poi a Bologna, ospitato da Teatri di Vita all’inizio del 2023. È però più che condivisibile la decisione di riprogrammarlo a Venezia, durante la quarta e ultima Biennale Teatro diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte.
Al debutto, nel 2013, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė e Rugilė Barzdžiukaitė – rispettivamente librettista, compositrice e regista – non avevano neanche trent’anni. Nate tra il 1983 e il 1984 nella Lituania sovietica, sono cresciute nel paese del blocco sovietico che per primo, nel marzo 1990, ottenne l’indipendenza. Si potrebbe forse cominciare da qui – da un’atmosfera intrinsecamente post-sovietica – per raccontare come mai il canto delle protagoniste di Have a Good Day! suoni così insolito da queste parti del mondo; e per riconoscere che il loro supermercato – al neon ma intimamente grigio; metallico ma mai saturo – è il luogo in cui può ancora nascere, oggi, una critica al lavoro contemporaneo svincolata da precedenti occidentali e novecenteschi (per cronologia reale o percepita che sia).
L’alterità dello spettacolo si intuisce bene a partire da ciò che in scena non c’è. Il primo assente è proprio il supermercato, solamente evocato nelle sue corsie grazie a un discontinuo pentagramma di neon sopra le nostre teste – perno immobile della scenografia già prima dello spettacolo e anche dopo la sua fine. La centralità delle dieci sedie (non dieci casse, non dieci corsie: solo dieci sedie rialzate, l’una accanto all’altra) annulla qualsiasi profondità e nega lo spazio degli scaffali, dei frigoriferi e dei banchi, sottraendo la scena a qualunque abusato ragionamento su luoghi e non luoghi e puntando invece le luci sulle sole lavoratrici. Allo stesso modo sono assenti, se non per qualche rapida allusione nel testo, i clienti e il loro vociare, scegliere, domandare; e, soprattutto, è assente la merce. Certo, la parola è dirimente nel libretto (è cantata già alla terza o quarta battuta, all’inizio della ninnananna alle verdure con cui si apre lo spettacolo), ma la merce non si vede: gli ossessivi beep che scandiscono tutta l’ora dello spettacolo sono il risultato della scansione metodica di codici a barre stampati su fogli di carta – nessuna insalata, nessun bagnoschiuma.
Per queste mancate presenze Have a Good Day! ha in primo luogo le parvenze di un’alternativa – anche cromatica, spaziale e ritmica – alla critica dei consumi a cui siamo più abituati: lontano anni luce dalla pop art ma anche da Marc Augé, disinteressato al rumore bianco del supermercato delilliano (e ben distante dalla sua recente traduzione cinematografica diretta da Noam Baumbach), il lavoro delle tre artiste cerca voci e toni altri. Il neon, per esempio, non illumina ma spegne ogni colore: e a partire dalla retinopatia provocata dal grigio dei supermercati nordici si potrebbe, per altro, tendere un filo che da questa Lituania porta alla Finlandia di Aki Kaurismaki nel recente Fallen Leaves (2023), la cui protagonista è una scaffalista licenziata perché scoperta a sottrarre il cibo scaduto, passando per l’ex Germania Est di In den Gängen, il valzer tra le corsie diretto nel 2018 da Thomas Stuber.
Era invece nell’autunno del 2012, proprio mentre Have a Good Day! veniva portato a termine, che Annie Ernaux decideva di raconter la vie (così si chiamava la collana per cui le era stato commissionato il testo) a partire dalle sue visite al supermercato Auchan. Il libro, per molti versi, può fare da contraltare all’opera lituana. Per il titolo, Regarde les lumières, mon amour, la scrittrice prendeva in prestito le parole sussurrate da una madre al figlio davanti alle luci natalizie: nei fatti, cioè, faceva risuonare la voce e l’esperienza di chi compra – fosse quella di una madre o, più spesso, la propria. Mettere distanza tra sé e il supermercato le era necessario poiché era proprio in quella distanza che Ernaux cercava (anche criticamente) uno specchio: l’immedesimazione non sarebbe servita, perché senza estraneità non ci sarebbe stata la scrittura. La sua attenzione a corpi, sguardi e movimenti, d’altro canto, era una sicura risposta al dominio dello sguardo maschile (appunto, da Warhol a Augé), ma lavoratrici e lavoratori rimanevano in ombra, quando non fuori gioco, perfino in Ernaux.
Fin dal suo titolo, invece, Have a Good Day! dà voce – dunque spazio e potere – a un altro canto, in cui il registro della quotidianità (il nome del gatto che ci aspetta a casa, il bus perso, lo scrub alla sera, un appuntamento) convive con quello del lavoro (la cassa che non si apre, l’errore di battitura di un codice, la coda che si accumula, l’onnipresenza del buio, quando si entra come quando si esce dal turno). In questo frangente, però, è dosata con molta intelligenza la lamentela: pur essenziale, è giustamente minoritaria in un libretto che invece insegue con precisione il lessico del mestiere, riuscendo a tradurre tanto la fatica fisica – movimenti, automatismi e codici – quanto il vuoto dell’abitudine. Anche per questo è davvero un peccato che non si sia lavorato meglio a dei nuovi sopratitoli in lingua italiana, spesso significativamente diversi da quelli inglesi: i problemi di traduzione, per altro, avevano già fatto discutere alle altre repliche italiane e, dati il contesto e l’importanza del libretto, sarebbe stato doveroso migliorare questo aspetto.
Stupisce un po’, inoltre, che la presentazione e la promozione veneziana dello spettacolo non menzionassero la precedente presenza in laguna delle tre artiste, che nel 2019 furono accolte con clamore grazie al loro Sun & Sea (Marina). Così – con un titolo ironicamente bifronte, per metà crema solare e per metà quadro dell’Ottocento – il padiglione lituano, affidato a loro tre e curato da Lucia Pietroiusti, aveva allora vinto il Leone d’Oro della Mostra Internazionale d’Arte, accompagnato da un vasto consenso di critica e pubblico. Erano state lunghe, infatti, le code per accedere alla performance, ospitata negli spazi che furono di un’altra Marina, quella Militare. Lì – osservati, spiati e giudicati dall’alto – i nuovi bagnanti del ventunesimo secolo riproponevano il testo di un libretto lirico scritto un paio d’anni prima e tutto giocato sulla possibile convivenza, anche questa bifronte, tra il chiacchiericcio da spiaggia e la discussione dell’urgente crisi ambientale. Erano state le artiste stesse, già allora, a mettere in relazione il lavoro per il padiglione con Have a Good Day!, vedendo le due opere come le prime due tappe di una possibile e amara «ode al capitalismo». Esplicitare il richiamo a Sun & Sea (Marina) sarebbe stato non solo “filologicamente” fondato, ma anche significativo di quanto possano (e debbano) diventare virtuosamente comunicanti i molti settori della Biennale.
È forse «ode», quindi, il termine che mancava per inquadrare un’altra anima di questo libretto in cui lo slogan pubblicitario sembra diventare epiteto: più che importare per il suo contenuto, è soprattutto formula per riproporre in chiave contemporanea la ripetizione tipica del componimento poetico (o del libretto operistico). In questo modo una musica di per sé tanto insistente e dissonante – fatta di sovrapposizioni, ritmi serrati e suoni acuti – si fa via via più vicina, abituale e in realtà perfettamente consonante: con noi e con le storie che stiamo ascoltando. Anche in questa traduzione minimalista, però, sono molti gli elementi tecnici del genere operistico a cui le tre artiste non rinunciano: la versificazione e il canto, grazie a delle interpreti straordinarie nel sovrapporsi e nell’alternarsi, pur nella varietà di ritmi; la staticità della scena, che qui è addirittura una fissità mai scardinata; l’impianto allo stesso tempo corale e individuale, che da un lato consente di far emergere personaggi ben definiti nelle storie, nelle età e nei caratteri, e dall’altro permette alla singola vicenda di diventare condivisa, poiché esemplare di un comune logoramento.
Tocca, infine, anche provare a soffermarsi sulla portata dell’aggettivo «comune», incalzati se non altro dalla biografia di una delle dieci cassiere, una giovane donna laureata in storia dell’arte, non occupabile nel settore per cui ha studiato e dunque impiegata al supermercato. Al passaggio dell’ennesimo codice a barre di giornata canta «forse l’anno prossimo proverò un dottorato»: ma non c’è ironia né gerarchia; forse solo un ammiccamento (però non fastidioso) alle molte lavoratrici della cultura che si possono immaginare tra il pubblico. Diversamente da quanto succedeva con Ernaux, qui i vetri dello specchio sono andati in frantumi; hanno fatto anche parecchio male, però.
Virginia Magnaghi
in copertina: foto di O. De Carlo
HAVE A GOOD DAY!
ideazione Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė
libretto Vaiva Grainyté
composizione, direzione musicale Lina Lapelyté
regia, scene Rugilé Barzdžiukaité
disegno luci Eugenijus Savaliauskas
costumi Daiva Samajauskaité
fonico Arūnas Zujus
produzione Operomanija
cassiere Indrė Anankaitė-Kalašnikovienė, Liucina Blaževič, Vida Valuckienė, Veronika Čičinskaitė-Golovanova, Lina Valionienė, Rima Šovienė, Milda Švelnienė, Rita Račiūnienė, Svetlana Bagdonaitė, Kristina Svolkinaitė
vigilanza Kęstutis Pavalkis (pianoforte)