Troppo chiaro, il messaggio! Perché
lo pronunziasti? Anche un bambino,
volendo, capirebbe.
(Eschilo, Agamennone)
Ursina Lardi, Leone d’Argento di questa Biennale Teatro 2025, è stata la veggente, Die Seherin, molto più a lungo di quanto previsto dal copione dell’ultimo lavoro di Milo Rau: presentato a Venezia in prima italiana, lo spettacolo aveva debuttato pochi giorni prima al Wiener Festwochen, il festival teatrale viennese che lo stesso Rau dirige. Terminate le due repliche veneziane, sabato 14 giugno Lardi ha ritirato il premio dalle mani del Ministro della Cultura Alessandro Giuli, per poi esternare senza esitazioni («un acuto, lucido soffio di vento», citando ancora il coro dell’Agamennone) tutta la rabbia e la frustrazione per un mondo teatrale sempre più ridimensionato. Il bersaglio è stato chiaro («le destre estreme e libertarie, ma anche [le] forze conservatrici più moderate, che continuano a smantellare non solo i finanziamenti e le infrastrutture, ma le condizioni stesse che rendono possibile l’arte»); le conseguenze forse un po’ auto-assolutorie («fare teatro è diventato di per sé un atto politico»); i suggerimenti, però, un valido faro («dobbiamo unirci e confrontarci sul palco e fuori con le questioni urgenti che la contemporaneità ci impone […] essere radicali e empatici e nonostante il quotidiano e il presente politico muoverci liberi sul palco con la mente lucida e il cuore in fiamme»).
Il tempismo è stato impressionante. Nel corso delle settimane successive il mondo teatrale italiano ha avuto notizia del drastico ridimensionamento materiale imposto dal governo per il prossimo triennio, nonché del dirottamento delle esigue risorse restanti verso realtà tradizionaliste, a scapito dei linguaggi del contemporaneo e della sperimentazione. Sui social si sono lette le prime reazioni, elaborazioni di una notte e tuttavia puntuali; del resto ci stiamo abituando a reagire agli attacchi coi tempi dell’oggi: a studiare, accumulare e aggiornare formule e parole per raccontare, giorno dopo giorno, questo che non è affatto un «problema di categoria» (lo ha ricordato Nicola Borghesi), ma solo un singolo tassello dello smantellamento progressivo della sanità, dell’istruzione, della ricerca pubblica (si veda, per esempio, la nota dell’assemblea di Vogliamo tutt’altro). E tuttavia, mentre facciamo girare comunicati e pensieri, Cassandra e le sue reincarnazioni ci aspettano al varco: un bicchiere d’acqua viene rovesciato – riportala, ora, l’acqua nel bicchiere.
Lardi e Rau (insieme hanno all’attivo quattro spettacoli e diverse collaborazioni) sono maestri indiscussi del teatro politico: solo pochi mesi fa, negli istanti in cui Donald Trump si insediava alla Casa Bianca, l’attrice leggeva da Mosul (dove stava girando Die Seherin) il testo di Endsieg: The Second Coming, che il premio Nobel Elfriede Jelinek aveva appena dedicato alla rielezione del Presidente statunitense. Contemporaneamente, l’attrice e attivista Nicole Ansari-Cox leggeva da New York la versione inglese del testo, nella traduzione di Gitta Honneger. La regia del progetto era sempre di Rau, lui stesso a Mosul insieme a Lardi e da subito convinto che il testo di Jelinek fosse, anch’esso, «il discorso di una veggente».
In quegli stessi giorni di gennaio, dunque, prendeva forma Die Seherin, un lavoro che effettivamente sembra dovere molto di più alla figura di Cassandra che a quella di Filottete, il protagonista sofocleo chiamato esplicitamente in causa da Rau nella drammaturgia di questa seconda indagine irachena, dopo l’Orestes in Mosul del 2018-19. In fin dei conti, però, a importare non è se il personaggio chiave sia l’eroe o l’eroina, Filottete o Cassandra, Ursina oppure Azad (l’unica altra voce recitante, in questa tragedia senza coro), ma piuttosto le ragioni per cui la storia dell’uno si rispecchia in quella dell’altra – le ragioni per cui tra la storia vera di Azad e quella assommata, montata, assemblata (ma non per questo meno vera) di Ursina scatta un riconoscimento. Con queste righe inizia e finisce lo spettacolo:
C’è uno sconosciuto, a te completamente estraneo, con cui non hai nessuna connessione
sta viaggiando verso di te dall’inizio dei tempi, giorno e notte
attraverso il deserto, il caldo e la pioggia
Come sapeva dove trovarti?
Come ti ha riconosciuto quando ti ha visto?
È a queste domande che lo spettacolo risponde: indagare il riconoscimento è capire cos’abbiano in comune la protagonista, una fotografia di guerra svizzera, e Azad Hassan, insegnante di letteratura a Ninive. Nuova Cassandra, Ursina con la sua macchina fotografica ha documentato un ventennio di guerre, dai Balcani a Piazza Tahrir; qui, però, in una sera della rivoluzione, ha subito un’efferata violenza di gruppo e da testimone si è trasformata in vittima. Azad, nuovo Filottete, non ha più la mano destra, mozzatagli dall’Isis sulla pubblica piazza in seguito a un’accusa di furto (e quell’esortazione impossibile a riportare l’acqua nel bicchiere rovesciato appartiene, nella drammaturgia, a suo padre, sconvolto di fronte alla visione di entrambi i figli senza più una mano). Il luogo del riconoscimento è una terra arida, non dissimile dalla Lemno «scheggiata» di Sofocle: una distesa di sabbia, rifiuti in plastica e copertoni, che per Ursina è allestita sul palco delle Tese; una distesa di sabbia, rifiuti in plastica e copertoni, ma ripresa in video, che per Azad è paesaggio quotidiano, quello davanti a cui appare e scompare, avanza e retrocede, mentre dietro di lui qualche uccello passa in volo, un gregge transuma, un campo profughi si delinea all’orizzonte.
È Lardi a farsi carico dello spettacolo: il potere che l’attrice esercita con i suoi monologhi, del resto, è solo una delle molte declinazioni del piacere su cui Die Seherin indugia – declinazioni però morbose, patologiche, di quella Lust che tanto torna nel testo. Insieme (e con il solito lavoro di compagnia: le riprese video di Moritz von Dungern, le luci di Stefan Ebelsberger, il design sonoro di Elia Rediger e i costumi di Anton Lukas) Lardi e Rau hanno montato un lavoro che non si discosta dalle aspettative, cioè dagli stilemi del regista svizzero che ormai abbiamo imparato a conoscere. Dunque, l’abbrivio dal mondo greco; la continua riflessione sul perché e sul come fare teatro; i dialoghi come al solito sospesi tra il palco e lo schermo; e una drammaturgia che non esita a mostrarsi conscia delle contraddizioni che muovono il nostro mondo teatrale, con le sue “giurie socialdemocratiche” e i suoi “registi post-conflitto”. O, ancora, l’ossessione per la costruzione dell’ultima scena; le lingue che si sovrappongono, con Lardi che esordisce in un italiano perfetto, prosegue in tedesco e in più di un punto si rivolge ad Azad in arabo; le narrazioni che si affastellano, a ricreare l’efferatezza non solo delle uccisioni, delle amputazioni, delle violenze, ma anche delle immagini che le immortalano.
Die Seherin va in scena e negli stessi giorni la redazione della rivista italiana «Internazionale» sceglie come immagine della settimana uno scatto che ritrae un gruppo di giornalisti a loro volta intenti a fotografare quel che resta (forse il corpo della vittima?, non lo sappiamo) dopo un’incursione militare israeliana a Nablus, il 10 giugno 2025. La Lust in gioco allora non è solo la personale ossessione di Rau per le rappresentazioni della violenza; non è solo quella di Ursina, che cerca in rete i video delle notti di Piazza Tahrir per riconoscere, nella prova della violenza subita, una traccia di sé; non è solo quella di Azad, che ha salvato sul telefono (e ci mostra) il video della sua amputazione; ma è anche quella su cui da decenni la storia della fotografia si interroga chiedendosi come abbiamo fatto – dalle fredde didascalie che raccontavano la guerra sino-giapponese per il controllo della Corea, e che Ursina ricorda durante lo spettacolo, fino al numero di «Internazionale» di oggi – ad allenare lo sguardo all’impermeabilità, in un contesto in cui questa Biennale diretta da Willem Dafoe si intitola Theatre is Body – Body is Poetry e intanto il mondo, come ha scritto Massimo Marino su Doppiozero, i corpi li «maciulla». La domanda, in fin dei conti, non è affatto nuova: gli stessi Rau e Lardi se l’erano già posta fin dal loro primo lavoro insieme, Compassion del 2016, e più in generale negli ultimi vent’anni se la sono posta le arti visive e performative reagendo presto ai pensieri di Susan Sontag in Regarding the Pain of Others (2003).
Rilevante, allora, non è tanto la riflessione sulla violenza del mezzo fotografico, quanto il fatto che Rau abbia scelto di nuovo questo quesito. Alla fine del 2024 anche Virgilio Sieni, probabilmente il primo artista in Italia a lavorare su Sontag, ha deciso di riproporre nei teatri, e con nuovi danzatori, Sonate Bach – Di fronte al dolore degli altri (2006): le undici coreografie del lavoro prendevano le mosse da undici luoghi di conflitto tra gli anni Novanta e i primi Duemila e, soprattutto, dai moltissimi scatti fotografici che li avevano raccontati; a innestarsi tra le morse del contenuto e a sovrapporsi ai gesti della guerra, però, arrivavano le Pathosformeln della pittura del Rinascimento. Significativamente anche Milo Rau, in uno degli incontri con gli artisti condotti da Maddalena Giovannelli a latere di questa Biennale, ha raccontato il proprio lavoro e la propria «ossessione per la forma» rievocando i «metodi della storia dell’arte» e, dunque, la necessità di «reimparare ogni giorno a guardare».
Torna di nuovo, anche come lezione della storia delle arti, il riconoscimento da cui comincia e su cui si conclude La veggente. Verbo densissimo, “riconoscere” unisce il ritrovamento e l’incontro con l’altro, la gratitudine (essere riconoscenti) e l’ammissione di un errore (riconoscere che). Su questo stesso verbo, ed è una coincidenza che fa pensare, si chiudono Le città invisibili di Calvino, con l’invito a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». In questo tentativo (pur sempre un «cercare»), le domande di Rau e Lardi – come scattano i riconoscimenti, e dunque anche in quali narrazioni ci riconosciamo – non dovrebbero cadere. Prima che in quel bicchiere rovesciato non rimanga nemmeno più un goccio d’acqua, forse c’è ancora tempo per reimparare a guardare, ascoltare le veggenti e le vittime (quelle del tempo mitico e quelle del tempo storico), distinguere le forme e i colori e decidere in cosa riconoscerci. Altrimenti, il rischio è che un indistinto grigio dilaghi, ed è in questo grigio che accadono le enormità, nel piccolo mondo teatrale e fuori da esso:
Era una convulsione del mondo, noi ci scavavamo una tana e tiravamo avanti. Sono i grigi che fanno un paese, chi non conta tace, subisce, o anche applaude ma aspetta che passi. Si avvezza a credere che passerà, che stia passando. Bisogna che abbia l’acqua alla gola per ammettere l’irreparabile. Così accadono le enormità.
(Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso)
Virginia Magnaghi
in copertina: Die Seherin
DIE SEHERIN
ispirato al Filottete di Sofocle
testo e regia Milo Rau
collaborazione ai testi Ursina Lardi
con Ursina Lardi, Azad Hassan (video)
scene e costumi Anton Lukas
design sonoro Elia Rediger
video Moritz von Dungern
drammaturgia Bettina Ehrlich, Carmen Hornbostel
luci Stefan Ebelsberger
traduzioni, dialogue coach (arabo) Susana Abdul Majid
consulenza e coordinamento (Iraq) Sardar Abdullah
coproduzione La Biennale di Venezia, Schaubühne Berlin, Wiener Festwochen | Free Republic of Vienna
con il sostegno di Goethe Institut