Ritrarre il reale attraverso una sua trasposizione, spostando il punto di vista, riportare fatti e testimonianze sotto forma di interpretazioni tutt’altro che mimetiche. Sembrano essere questi gli obiettivi di Chi ama brucia, discorsi ai limiti della frontiera, del gruppo Ortika. Un progetto che prende le mosse da un forte interesse della sua ideatrice, Alice Conti (anche interprete e regista) per la realtà, per lo più trascurata dall’opinione pubblica, dei Centri di Identificazione ed Espulsione. Un interesse confluito in una ricerca e, poi, nelle pagine della sua tesi di laurea in antropologia. Alla base dell’indagine, vi sono una serie di interviste a migranti che vi sono stati rinchiusi o ai lavoratori del centro (in questo caso quello di Torino). E la tesi è stata il materiale di partenza per la scrittura del testo drammaturgico curato dalla stessa Conti e da Chiara Zingariello: la partitura è composta solo da frasi realmente pronunciate dagli intervistati, che costituiscono il primo livello del racconto dello spettacolo.

Ci si potrebbe aspettare di vedere in scena le forme più rodate del teatro di denuncia, ma Chi ama brucia tenta una scarto: il palco si trasforma in un campo da gioco, il racconto spezza ogni linearità, e i frammenti della vita nei CIE nutrono un immaginario teatrale tutt’altro che piatto e prevedibile. Si ride, persino, dei tempi comici ben assestati e dei personaggi grotteschi e sopra le righe: la dipendente della Croce Rossa “volontaria” (anche se pagata dallo Stato) che dal suo ufficio maneggia chiavi, ascolta la musica o le voci degli “ospiti”, e la Garante, metafisica e inquietante trasposizione dell’autorità che dovrebbe occuparsi della tutela dei carcerati (e che invece, nella realtà, resta ben lontana dai Cie).
È dalla serenità e dai sorrisi, dalle affermazioni stridenti e dall’ambiguità dei termini, più che da un sovraccarico interpretativo, che emerge la drammaticità del reale: “i clandestini, di fatto, sul territorio non esistono”, ci viene rivelato; e a vivere nel Cie “se non lo sei, razzista lo diventi”.

L’interpretazione di Alice Conti gioca sull’ambiguità dei contenuti, grazie a una spiazzante perfomance fisica e verbale, e a un uso degli oggetti di scena essenziale ma significante, valorizzato dalle luci di Alice Colla: di ogni elemento viene suggerito l’utilizzo reale ma anche il potenziale metaforico. Così lo zucchero rappresenta gli psicofarmaci o altro genere di sostanze somministrate agli “ospiti” e la neve all’arrivo dell’inverno; e le palline da tennis, strumento per lanciare un messaggio al di là della recinzione, diventeranno anche dispositivi di attacco così come decorazioni natalizie.
La frammentarietà e la sovrabbondanza di spunti e contenuti – verbali e allegorici – andrebbe forse leggermente sfrondata, soprattutto nella seconda parte: la materia ricca, creata e cresciuta nelle mani della compagnia, ne guadagnerebbe senz’altro in efficacia. Ma ci auguriamo che lo spettacolo possa trovare un suo equilibrio in molte repliche e in una lunga torunée per l’Italia: perché guardare senza retorica a questi campi dimenticati, in cui le persone sono recluse “non per qualcosa che hanno fatto, ma per qualcosa che sono” (evocazione dei peggiori momenti della storia) non è cosa da poco.

Francesca Serrazanetti