di e con Paola Bianchi
Visto al Pim Off di Milano _ 12-13 febbraio 2011
Nessuno può sfuggire alla sua ombra. Ciascuno se la porta dietro, da quando nasce a quando muore, sentinella che indica una strada: da dove veniamo e dove andremo. L’ombra non si può catturare, soffocare, eliminare. Sta lì a sottolineare cosa facciamo, perché lo facciamo, quando lo facciamo.
Lo sa bene la coreografa Paola Bianchi, che allo studio di questa parte oscura ha dedicato la sua ultima produzione, Duplica. Una partitura che sta a metà tra la danza contemporanea e il teatro d’ombre, una drammaturgia soffusa, lieve, mai gridata, che vive di suggestioni ed empatia, trasportando lo spettatore buying online viagra in un mondo onirico, che a tratti prende le sembianze dell’incubo. «È un monologo autistico a due voci», spiega l’autrice. «Un dialogo muto, a volte sordo, tra il corpo e la sua immagine. L’idea di partenza è stata il desiderio di sperimentare il mondo dell’ombra e della luce utilizzando unicamente il corpo, il mio corpo».
In un palco vuoto, diviso in due da un tendone nero (lo spazio fuori e dentro l’ombra), dietro il quale si nascondono fari e proiettori, si muove la danzatrice, snella e nervosa, vestita di uno mini abito scuro che le serve a confondersi ancor di più con il nero che sta per affrontare. Entra in scena in un silenzio sospeso che vuole interrompere timidamente, mettendosi a strisciare i piedi – addosso ha degli scarponcini maschili slacciati – con ruvidezza sul pavimento in legno, accovacciata come un animale, malmostosa come una bambina, essere che deve trovare la forza di muoversi in un mondo, quello della luce, cui non sente di appartenere. «Ho affrontato questo progetto con uno stato di assoluta apertura verso nuove possibilità», continua Bianchi. «Non ho opposto resistenze, mi sono resa disponibile ai fallimenti e alle contraddizioni. Ho lasciato che un sentimento di insicurezza mi accompagnasse per buona parte del percorso. Per la prima volta ho abbandonato la certezza di un senso predefinito dettato da una drammaturgia costruita in precedenza, per crearne uno nuovo attraverso le varie possibilità che la ricerca sull’ombra mi offriva. Ho lavorato per sottrazione di mezzi. La luce sul corpo, l’ombra del corpo».
Ed ecco che il corpo cerca la sua ombra, le parla, la invita a dialogare, senza ottenere risposta. I movimenti – testa, busto, braccia, mani, gambe, piedi – sono lunghi o brevissimi, calmi o molto agitati, armoniosi o meccanici. Si gonfiano e si sgonfiano in una danza che cerca il suo senso nella rincorsa, nell’aspirazione all’unità. Ma il tentativo fallisce.
Il disaccordo, la dissonanza tra ciò che il movimento propone e quello che gli restituisce l’ombra sono sottolineati dalla musica: accordi stonati di un violino, note di un tango che si sfrangiano in suoni elettrici, distorti. Più che accompagnare i gesti, li espellono dal corpo, li allontanano dalla loro fonte, dall’origine, come nella speranza che si riuniscano all’ombra, in un matrimonio impossibile che sancirebbe la vittoria della morte sulla vita. Perché quando ci ricongiungiamo con la nostra ombra è come se smettessimo di esistere nella duplicità di luce e buio. Diventiamo solo buio. È come fossimo morti.
Oppure, sembra suggerire lo spettacolo alle sue ultime battute, è perché siamo rinati. Siamo altro, diversi da come eravamo prima. Abbiamo inghiottito l’ombra e ora, dopo aver sperimentato una nudità imbarazzante e improvvisa, come quella della danzatrice dietro il velo, possiamo tornare a vestirci, non più di nero ma di rosso sangue, e a muovere passi che sono come i primi, incerti vagiti di una nuova vita.
Francesca Gambarini