di David Greig
regia di Roberto Rustioni
visto all’interno di “Stanze. Esperienze di teatro d’appartamento a Milano”.
13-15 giugno 2013
Il teatro come uno spazio altro. O uno spazio altro che diventa teatro. Questo accade in Essere Norvegesi, lo spettacolo diretto da Roberto Rustioni e presentato nella rassegna “Stanze”, ideata da Rossella Tansini e Alberica Archinto e giunta ora alla sua seconda edizione. L’incontro fra geografia e teatro è una cifra costante nella produzione del prolifico e poliedrico drammaturgo scozzese David Greig: dagli esordi di Europe (1994) alle isole scozzesi di Outlying Islands (2002) alla capitale siriana in cui è ambientato Damascus (2003) alla San Diego americana, moderna e globale della pièce eponima (2004). Con Being Norwegian (2007), Greig si interroga sulla vera e propria costruzione di un’identità e di uno spazio altro: non c’è nemmeno più bisogno di viaggiare. L’essere norvegesi è una condizione esistenziale, che si può sperimentare persino in una casa spoglia e disadorna. La pièce si adatta dunque particolarmente bene all’atmosfera di “Stanze”, che porta gli spettacoli volta per volta nell’intimità di una casa diversa; e persino il consueto momento conviviale al termine dello spettacolo richiama l’analogo contesto nel quale fu presentato Being Norwegian, cioè il progetto “A Play, a Pie and a Pint”.
Entriamo nell’appartamento scelto per l’occasione accompagnati dalle note di “Norwegian Wood” dei Beatles: “I once had a girl, or should I say, she once had me”. L’attacco della canzone non potrebbe essere più calzante per introdurci ai due protagonisti Sean e Lisa e alla loro relazione, all’insegna del ribaltamento dei ruoli. Siamo in Scozia: i due si conoscono una sera in un pub e finiscono presto a casa di Sean. È una casa spoglia, ancora piena di scatoloni: ma la vista dalla finestra, a Lisa, ricorda Oslo. Perché Lisa è norvegese, o almeno così dice. Ed è convinta che anche Sean lo sia, perché tutto in casa sua la fa pensare al suo paese. A colpi di “noi in Norvegia” e “noi norvegesi” Lisa costruisce uno spazio dell’immaginario per lei e Sean, uno spazio in cui iniziare a conoscersi.
Sulle prime, però, Sean non sembra convinto. Ha un linguaggio diverso e convenzionale per relazionarsi a Lisa: le offre del vino, le chiede che musica le piaccia, si preoccupa che ci sia la luce giusta. Ma Lisa incalza, vuole portarlo verso di sé. È lei, in realtà, quella che si fa avanti mentre Sean è visibilmente spaesato: è appena uscito dal carcere, ha perso ogni contatto con la sua famiglia e stenta a riprendere una vita normale. Nella sua testa, dice, c’è ancora “un grande buio”. Nessun problema, ribatte Lisa: “noi norvegesi siamo abituati a vivere con il buio”. Sean però non cede e la frizione tra i due arriva a una lite violenta: anche Lisa perde le staffe, “nessun uomo” urla “è abbastanza per una vera donna norvegese”. Ma proprio la disperazione di lei condurrà Sean a sciogliersi e i due potranno essere finalmente “come due norvegesi che si incontrano in terra straniera”.
Il testo di Greig ci invita a non dare nulla per scontato, a immaginare ogni volta di nuovo lo spazio del nostro incontro con l’altro, a costruirlo con parole semplici ma mai scontate. Una sfida a cui rispondono con efficacia la regia e l’interpretazione di Roberto Rustioni. Come nel riuscito Tre atti unici da Cechov (presentato lo scorso dicembre al teatro I) Rustioni sceglie un linguaggio terso e mai melodrammatico, anche nei momenti di maggiore tensione. Complice l’ottima interpretazione di Elena Arvigo, nemmeno il ritornello di Lisa – “Noi-in-Norvegia. Noi-norvegesi” – spezza il ritmo di uno spettacolo che, pur intonato a un realismo quasi ossessivo, è un invito a scorgere un angolo della nostra personalissima Norvegia in una stanza d’appartamento milanese.
Sara Sullam