Cominciò che era finita è un’autobiografia, quella che Luisa Viglietti ha recentemente dato alle stampe per Edizioni dell’Asino (Roma, 2020) con un’interessante prefazione di Goffredo Fofi. Ma è anche qualcosa di diverso. È un’occasione. Quella di accedere, attraverso una testimone d’eccezione, a una prospettiva inedita sulla vita e sul lavoro di uno degli attori e degli autori più importanti del nostro teatro, Carmelo Bene.
Beatrice Barbalato, studiosa e autrice di numerosi scritti sul teatro di Bene, ha raccolto intorno al libro di Viglietti i suoi pensieri: una riflessione dove letteratura, teatro e filosofia si intrecciano – carsicamente e indissolubilmente – in uno scorrere di parole che vi proponiamo di seguito.
Ho letto l’autobiografia Cominciò che era finita di Luisa Viglietti. Impossibile non vedervi emergere l’intensità della Verità.
«La verità», come ha detto Georges Dumézil in Servius et la Fortune (Parigi, Gallimard, 1943), «è apparsa subito all’uomo come l’arma più potente di ogni altro strumento a sua disposizione». Il narratore autobiografico rivendica generalmente di dire la verità, tuttavia essendo lui lo scrivente, cioè colui che costruisce la diegesi del racconto di sé disponendovi i fatti, inquadrandoli come veri, attendibili, può, ovviamente, ingannare e ingannarsi con grande naturalezza. Il discorso narrativo di Viglietti, tuttavia, riesce a posizionare l’io come soggetto e, al tempo stesso, come oggetto, per dirla con Jean Starobinski.
«La catena degli episodi vissuti traccia un cammino, una via (a volte sinuosa) che sfocia nello stato attuale di conoscenza ricapitolativa.
Lo scarto che stabilisce la riflessione autobiografica è dunque doppio: è allo stesso tempo uno scarto temporale e uno scarto d’identità».(Jean Starobinski, La relation critique, Parigi, Gallimard, 2001)
Questo scarto è al cuore di Cominciò che era finita. Non è un caso che le ultime pagine siano rivolte all’ante res, l’infanzia e la giovinezza di Luisa prima di Carmelo Bene. Le temps, ce grand sculpteur, per usare le parole di Yourcenar. Non è semplice per il soggetto saper riconoscere il lavorìo del tempo sul suo sé, averne conoscenza ricapitolativa. «Essere-vero (verità) significa essere scoprente» afferma Heidegger ed essere scoprente, essere-vero non significa rivelare un evento come fosse un coup de théâtre, ma vuol dire iscriversi e riconoscersi in un processo, in un procedimento. La vita di Luisa Viglietti con Carmelo Bene è stata quella di un essere permanentemente scoprente.
Fatti, pensieri, il percorso personale di Viglietti, il lavoro con Carmelo Bene sono intrecciati con una tale rispondenza, con una convergenza articolata di eventi, circostanze, sentenze di tribunale che la Verità è la risultante di un complesso cammino. La Verità non è una parola sterile e astratta, ma la combinatoria di eventi reali, accaduti, assunti dal soggetto consapevolmente e pienamente. Êthos, antrôpôi, daimôn, il carattere è il destino, diventa la chiave di volta potentissima di tutta la storia.
Ed essendo la farsa una possibile componente amara della vita, sentenze ai limiti del verosimile hanno distrutto la volontà di Carmelo Bene che aveva predisposto la Fondazione l’Immemoriale per salvaguardare il suo lavoro, decidendo di affidarla a coloro che lo avevano umanamente e professionalmente accompagnato in vita. Luisa in primis. Ed è così che la storia tribunalizia distrugge la Verità, morcellizzandola, frantumandola per tranches in piccoli eventi da giudicare di volta in volta, facendola svanire, fino a rendere difficilmente consultabile il patrimonio di Carmelo Bene. Fino a rendere la Verità indecifrabile.
Forse oggi si vede un po’ di luce. Questo patrimonio sotto la dicitura Polo bibliomuseale Carmelo Bene è approdato a Lecce, non si sa se definitivamente.
Bene, l’antimoderno
Luisa Viglietti abbraccia una concezione di un tempo che si dispiega in gittate lunghe. Non è un caso che il libro si intitoli Cominciò che era finita, una frase che Pasolini fa dire al corvo in Uccellacci e uccellini (1966) dopo il funerale di Togliatti: «il cammino comincia e il viaggio è già finito». Credere nel destino e nella destinazione non ha consistenza. L’idea dell’inutilità del viaggio è un motivo non nuovo nella storia della cultura, Bene (e Viglietti con lui) lo condividono con quegli autori che Antoine Compagnon designa come antimoderni (Les antimodernes, Parigi, Gallimard, 2005) – fra i quali si potrebbe annoverare anche Pasolini, appunto. Tra questi Baudelaire, che ne Le voyage scrive: «Destino singolare in cui la meta si disloca, e se non è in nessun luogo, può essere dappertutto!». Un viaggio senza meta, dove il tempo cronologico non porta a nessuno approdo.
Gli antimoderni non credono nel progresso, e ritengono la cainità propria dell’uomo, un topos ricorrente nel lavoro di Carmelo Bene. Una sfiducia nel progresso positivo. E se l’avvenire è inesistente, il passato ci è consegnato sotto delle sembianze che possiamo rivisitare. E questo è stato il lavoro di Bene: riprendere il passato non come un datum ma come momento dove mille possibili sviluppi possano essere ancora immaginabili, dove non solo si può osservare l’accaduto ma i desideri, quanto avrebbe potuto accadere, che è la vera funzione dell’arte, il costituirsi sempre come opera aperta. Postulare avvenire e progresso, secondo Barbey d’Aurevilly (1808-1889) – uno degli autori d’elezione per Bene – ha caratterizzato una società «che non vede che l’avvenire, non parla che d’avvenire, che inventa tutte le mattine l’avvenire che rifà tutte le sere». Una società, dunque, chimerica, a dispetto di una razionalità gridata a parole. Un insulto dell’intelligenza all’intelligenza, scrive sempre Barbey Aurevilly in Les prophètes du passé che sin da questo titolo-ossimoro ridicolizza i falsi progressisti che postulano un avvenire profetizzando il déjà vu.
Malinconia di una coscienza in prima linea
Non è difficile pensare che in Carmelo Bene, al di là dell’immediatezza dell’in medias res e del tono fermo e persino arrogante, sopravvenga la malinconia, che è l’avere coscienza del già trascorso, dello slittamento dei punti fermi cercati, degli agguati del fato, dell’impossibilità di far perdurare e far corrispondere attesa, desiderio, soddisfazione. La malinconia si rivela traccia sottostante di un Carmelo Bene sotto il segno di Saturno, che lo porta attraverso una profonda percezione di sé a farsi del male e a non a fare del male, nella consapevolezza che il mondo è solo nell’ in-sé. Non è un caso, credo, che Bene si sia disgregato dopo operazioni su operazioni, e malattie. Un disfacimento non solo provocato dagli eccessi, ma dall’eccesso di vivere, di sentire magnetizzate sul proprio sé tante forze drammatiche indossate attraverso le vesti di Hamlet, Lorenzaccio, Manfred.
Non esiste un interno ed un esterno per Bene: come sottolinea Kierkegaard (La verita soggettiva, l’interiorità) l’Io = Io non può esistere. Non può esistere un Io parallelo ad un altro Io che viene modulato secondo parametri a lui esterni. Tutto il pensiero di Carmelo Bene, la sua opera è sotto questo segno. Come mostra Hamlet, scrive Kierkegaard, è lui e solo lui il motore e il detentore di questo dubbio. Attraverso Shakespeare Kierkegaard mette in luce l’impossibilità di far marciare insieme due Io, interno ed esterno. Proprio in questa prospettiva Bene ha condotto il suo lavoro di messa a nudo del suo Hamlet, del suo essere poroso, calamitizzante, una carta assorbente delle incertezze dalle quali lui e solo lui è penetrato.
Stare su un testo, stagnandovi, è una componente di Bene e degli antimoderni. Come scrive sempre Compagnon: «[L’antimoderno] ha difficoltà a comporre: la sua opera è sempre un po’ mostruosa. È anche quanto persiste a fare di lui un moderno». Una riflessione vicina a Bene. È una chiave di lettura della ricerca impossibile, un cimentarsi inciampato con i testi, non progressivo, appunto, da parte di Bene. È impossibile che Bene aggiorni uno stesso personaggio. E ancora chi oserebbe parlare di una versione più evoluta di un’opera di Bene rispetto alla precedente? Impossibile. E nel cuore stesso di ogni suo lavoro impedire di vedere qualsivoglia avanzamento del tempo, qualsiasi canonica analisi filologica.
Luisa Viglietti fa comprendere molto bene questo tratto: i Pinocchio nelle varie versioni, sembrano essere una cartina di tornasole di questa visione. Bene vanifica l’idea di evoluzione (addomesticamento). «Il finale di Pinocchio 70 mostra il protagonista avviarsi responsabile verso il proprio destino [nb: di integrato], e rassegnato si unisce alla folla che festeggia la propria schiavitù. Un sogno finito prima ancora di cominciare», scrive Lusa Viglietti. «Il protagonista si afferma come soggetto (cioè assoggettato burattinaio) in balìa degli eventi».
Carmelo Bene non fa discorsi mette in opera un lavoro di desolidificazione, decostruisce questo mito italiano (e non solo), annulla l’illusione di poter edificare il senso di cittadinanza. A parte la voce della Fata che è di Lydia Mancinelli tutti gli altri personaggi sono detti da Carmelo Bene. L’evolversi di Pinocchio è apparente, inscrivendosi in crescendo piuttosto nella figura di un uomo ad una dimensione, univoco. Che è il grande rischio delle democrazie.
Il dandy in movimento
Cominciò che era finita è traversato da un altro tratto fondativo (anche questo antimoderno) di Carmelo Bene: l’essere un dandy. Scegliere il dandismo come categoria sovrana, estetica, significa crearsi un mondo in un eterno presente, in cui tutto ciò che si suppone abbia consistenza (la storia, i giudizi, i valori) perde qualsiasi influenza. Come Lord Henry che ne Il ritratto di Dorian Gray di Wilde (autore importantissimo per Bene.) afferma: «Il vero mistero del mondo è il visibile non l’invisibile…». Bene ha dato di sé un’immagine esterna, ha lavorato perché questa esteriorità fosse la sua interiorità, non abbiamo mai assistito a un racconto di sé problematico e intimista, perché, suppongo, questa categoria l’ha decostruita in se stesso. E mi pare di poter dire che l’autobiografia di Luisa Viglietti lo confermi.
Bene si è adoperato per apparire (ed essere) diavolesco, arrogante, faustiano. E si sa come Faust, ennesimo alter ego di Bene, sia un dandy abitato dalla libido sciendi. Viglietti tratteggia questa componente nel libro in particolare nel capitolo intitolato Il privilegio della dannazione a sottolineare che per vivere non è necessario essere incensati, approvati, inclusi nel gregge.
Sostiene Françoise Dolto, che il dandy suscita voyeurismo, perché lui è in una continua ricerca, in un continuo movimento (Le dandy solitaire et singulier, Paris, Mercure de France, 1999). Proprio come per Brummell – l’eponimo del dandismo ottocentesco ben tratteggiato da Aurevilly (1845) – che mettendo al centro il vuoto, rendendo imperscrutabile il suo sé, permetteva di riempirlo di significato facendovi convergere gli sguardi altrui. Il dandy, insomma, scrive Dolto «non è fecondo che nell’immaginario degli altri […]. Egli è desiderio, e allo stesso tempo non ha un legame dove fissarlo». Osservazioni che sembrano costruite proprio per Bene.
Bene non era un voyeur ma ha provocato scientemente voyeurismo, un’arma sottile con la quale ha sollevato l’interrogativo sull’identità dell’autore con i suoi tanti alter ego. E nel quotidiano raccontato da Viglietti comprendiamo a fondo quanto questa ossessione fosse una costante primaria del lavoro dell’artista.
Così il dandy-vampiro (canonizzato dall’abbigliamento di Beaudelaire) vuole suscitare voyeurismo. Lo scrive lo stesso attore ne La voce di Narciso: «se il non-morto non fosse pensato, evocato dall’incosciente narcisismo delle sue ‘vittime’ che poi ‘vampirizzate’ puntualmente ritirano il loro spavento, non si sognerebbe nemmeno di lasciare il suo ricercatissimo letto funebre […] così come il dandy non s’atteggerebbe affatto se non fosse guardato».
Il «nostro essere intimi»
Verso le donne, al di là delle vicende specifiche, ognuna con una storia a sé, in Bene ha dominato un’attitudine mentale tipica dei dandy. Bene ha privilegiato figure androgine, da Pentesilea a Achille a Lorenzaccio, ha rifiutato quel femminile del miss / missing – «Aveva letto in un dizionario inglese che la radice della parola inglese miss (signorina) era missing (mancante) riagganciandosi così alla memoria lacaniana sulla mancanza della donna» ricorda Viglietti – così delineato da Charles Baudelaire:
«La donna è il contrario del Dandy./ Dunque deve fare orrore./ La donna ha fame e vuole mangiare. Sete, e vuole bere./ Desidera e esige di fare sesso./ Bel merito! La donna è naturale, cioè abominevole./ Per questo è sempre volgare, cioè il contrario del Dandy».
(Charles Baudelaire, Mon cœur mis à nu)
Così ne Il ritratto di Dorian Gray viene interpretata quest’ambiguità androgina dei dandy. Seduttore delle donne nella prima parte del romanzo, nella seconda, di notte, lo è degli uomini. Wilde scrive ne Il ritratto di Dorian Gray che la donna è un sesso decorativo, in quanto privo di essenza ci si può appropriare dei suoi modus come di un vestito.
La storia personale di Luisa Viglietti fa comprendere emotivamente e intellettualmente quanto la convivenza con Carmelo Bene abbia coniato entrambi in un reciproco scambio. Cominciò che era finita costituisce un breviario per affrontare la dualità attraverso un faticoso, difficile viaggio (questa volta sì, un viaggio) che ha metamorfizzato due persone così diverse, ha reso possibile «Il nostro essere intimi», scrive Luisa. Il suo incontro con Bene la costringe a uscire da «un’infelicità senza desideri», cioè dalla sua vita ordinaria: «Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, ha avuto l’occasione di conoscersi meglio». Un parcours du combattant carico di senso. Come nelle parole di Céline in Voyage au bout de la nuit: «C’est peut-être ça qu’on cherche à travers la vie, rien que cela, le plus grand chagrin possible pour devenir soi-même avant de mourir».
Beatrice Barbalato