di Rimini Protokoll
visto nell’ambito del Festival Escenas do Cambio a Santiago de Compostela _ 28.01.2016 – 13.02-2016

Che cosa accade se il teatro decide di farsi strada, di infilarsi dentro ad una valigia e di volare in dieci Paesi e città distinte? E se la destinazione del pacchetto scenico non è un teatro convenzionale, ma uno o più appartamenti di una città europea? Succede che una compagnia di teatro berlinese, nello specifico Rimini Protokoll, sceglie di dotarsi di una bussola da viaggio, di una mappa formato gigante, e decide di adattare la creazione scenica ad ovattate mura domestiche, in giro per l’Europa. No, non stiamo parlando di un progetto surreale, destinato a rimanere tristemente incompiuto in ipotesi creative. Stiamo parlando di Europa na casa (dal gallego, Europa in casa), l’unico progetto artistico del festival Escenas do Cambio ad aver trovato spazio nel cuore pulsante della città di Santiago, al di fuori del centro nevralgico della Cidade da Cultura.

Confrontarsi con il lavoro di Rimini Protokoll, una delle formazioni artistiche più avanguardiste all’interno della scena contemporanea, conduce spesso ad immergersi in creazioni sceniche prodotte da sofisticati e curiosi dispositivi che prevedono appunto un coinvolgimento diretto degli spettatori nella creazione dello spettacolo, come accade per il caso di Europa na casa.
Nato nel 2015 da un’idea dei registi Helgard Haug, Stefan Kaegi e Daniel Wetzel, lo spettacolo ha conosciuto fino ad oggi 330 appartamenti distinti in giro per l’Europa, dalla Germania, alla Polonia, alla Repubblica Ceca, alla Danimarca, all’Olanda, al Belgio, al Portogallo, fino ad approdare nei giorni scorsi in Galizia, in Spagna. E, come per il caso di Remote Milano (leggi la recensione), riuscito ad approdare per la prima volta in Italia nell’ottobre scorso, anche quest’innovativa proposta scenica del gruppo berlinese Rimini Protokoll fatica a trovare date nazionali: eppure c’è chi, tra gli addetti ai lavori, inizia a ventilare, sottovoce, la possibilità di vedere presto Europa in casa anche per una versione tutta made in Italy.

Difficile, se non rischioso, pensare ad Europa na Casa come a uno spettacolo in senso proprio: non solo per la scelta del luogo, un appartamento diverso per ogni rappresentazione, e per le modalità sceniche messe in campo, ma per la proposta all’origine, cioè “per invertire la logica del recarsi a teatro, facendo sì che sia il teatro ad incontrare le case delle persone”, come afferma lo stesso regista Stefan Kaegi. E non solo: la messa in scena non prevede pubblico, ma esclusivamente i partecipanti al gioco, ovvero gli spett-attori, coloro che prenderanno parte attiva alla proposta scenica. Ci si trova ad attraversare un confine delicato e a tratti sfuggente. Un po’ come un equilibrista, in bilico tra il filo e il vuoto, lo spett-attore gioca, pur sapendo che ciò a cui andrà incontro resta avvolto dall’indefinito.

Come suggerisce il titolo, l’oggetto principale della messa in scena è l’Europa. Una scelta forse non casuale, quella dei registi tedeschi, di proporre una tematica europea proprio in una terra di confine come quella gallega, che, per vari motivi, ben si presta ad una riflessione globale sulla percezione del concetto di Europa nella contemporaneità.
Tutto ha inizio con un messaggio via WhatsApp: dopo aver lasciato il numero di cellulare al momento dell’acquisto del biglietto, il suono magnetico del “bip bip” comunica al partecipante, il giorno medesimo dello spettacolo, l’indirizzo dell’appartamento cui si dovrà recare la sera stessa.
Gli spett-attori, in tutto quindici, vengono accolti da due istrioni: il primo supervisiona l’intero svolgimento del gioco all’interno della sala, fungendo da elemento di connessione tra l’accadere e il dispositivo scenico. Il secondo, invece, resta in cucina, il luogo in cui i programmatori azionano il dispositivo affinché il gioco possa procedere. Oltre ai due istrioni, la proposta ludica prevede anche un maestro di cerimonia, il padrone di casa che “ospita l’Europa” e prende parte attivamente al gioco. Dopo essersi seduti attorno a un tavolo, su cui primeggia una cartina dell’Europa, gli spett-attori segnano sulla mappa tre punti corrispondenti al luogo di nascita, ad uno stato in cui si è vissuto all’estero, o al di fuori della propria città d’origine per un certo periodo di tempo, e, da ultimo, un luogo a cui si è legati emotivamente. Una volta immortalati sulla cartina, i punti vengono uniti tra loro, in modo da formare alcune figure geometriche.

L’elemento determinante di tutto il gioco ha la forma di una piccola e trasparente macchinetta di plastica, simile a un emettitore di scontrini, in formato mini: non è che uno dei due dispositivi scenici, visibile agli occhi di tutti i partecipanti. Quando lo strumento elettronico emette un suono, ognuno, facendolo passare di mano in mano, schiaccia un pulsante verde e, all’istante, compare un foglietto bianco con domande e istruzioni circa le azioni da compiere, che vanno recitate ad alta voce o, solo quando espressamente indicato, in silenzio. E così da una prima parte in cui vengono poste alcune domande informative e di carattere generale al maestro di cerimonia, si passa alla seconda, in cui le domande, rivolte a tutti i partecipanti, prevedono una risposta secca (sì o no) fino ad arrivare alla terza fase in cui, in base ai risultati e ai dati fino a quel momento incamerati , i componenti vengono suddivisi dal sistema in sei squadre distinte che, dotate di un mini i-pad, rispondono a domande di carattere europeo e circa possibili alleanze, lotte o tregue, accumulando punti per ogni risposta corretta. Come conclusione della dinamica partecipativa viene suddivisa una torta, infornata all’inizio del gioco: ad ogni partecipante spetta una fetta pari alla percentuale di punti accumulata (per un taglio equo il dolce viene minuziosamente misurato con un centimetro).

Se, come da prassi, ogni gioco prevede un inizio, uno svolgimento, magari con uno più scontri tra le parti, e un finale con la dichiarazione dei vincitori, Europa na casa, pur decretando la squadra ad essersi aggiudicata la fetta di torta più grande, lascia intravedere in modo sarcastico il valore del “mangiare”, vero epilogo del gioco. Tutti i partecipanti ben si prestano a saziarsi, senza interrogarsi o senza pensare che forse, dentro a quel boccone, c’è la spartizione di poteri, di interessi, di equilibri, di tattiche definite, poco prima, attorno a quello stesso tavolo: c’è, in altre parole, il gioco stesso della politica che tutti abitiamo, spesso inconsapevolmente, nelle vesti di grandi poteri maggioritari o di minoranze. Colpisce, in tal senso, come, nello sviluppo scenico stesso, varino le relazioni tra gli individui. In un primo momento ciascun partecipante vota singolarmente con una semplice alzata di mano, inevitabilmente influenzato dagli altri; secondariamente, il voto diventa già frutto di una semi alleanza di partito, divenendo “un voto di coppia”, spesso protetto dall’anonimato. E il ritmo del procedere scenico è dettato dal dispositivo, dall’occhio drammaturgico che incalza con domande e istruzioni, spesso senza lasciare il tempo per terminare ciò che si stava facendo. I partecipanti sono così costretti ad interrompere il ritmo del gioco per interrogarsi su cosa realmente si debba fare o per rileggere istruzioni particolarmente ostiche: tentano, in certo modo, di mettere in campo uno spirito comune per la riuscita del gioco. È solo negli spazi vuoti, nelle interruzioni non previste che il potere del dispositivo si rende maggiormente potente e identificabile: esso, in altre parole, è la rete che condiziona e determina equilibri, forze e saperi tra le parti, quale occhio super partes che guida e al tempo stesso manipola.

Europa na casa si compone come un’architettura ludica studiata minuziosamente per un formato tascabile, adatto quindi non solo al viaggio da una nazione all’altra, ma ad abitare appartamenti di città distinte, cercando ogni volta di indossare “le pantofole” del padrone di casa, di mettersi comodi, insomma, nel suo mondo. Si percepisce continuamente un’alternanza, durante lo spettacolo, tra dentro e fuori: il “dentro” rappresenta la familiarità di un luogo, che incontra un “fuori” globale, composto da individui perlopiù sconosciuti. Lo svelarsi del microcosmo di uno spazio, piccolo, un mero puntino sulla carta che accoglie e segue di pari passo la globalità che d’un tratto l’attraversa, tramite l’incontro con tutto quello che potrebbe rappresentare l’Europa: una mappa ben definita e tratteggiata dai confini, le distinte provenienze dei partecipanti con le loro esperienze di vita, le idee, le opinioni, i trattati, le leggi, le normative. Ma il gioco svela anche la precarietà circa un senso stesso di identità ed appartenenza europea: a Santiago solo un 20% si ritiene più europeo che cittadino spagnolo. Una tendenza generale confermata da una percentuale estremamente bassa in Danimarca (lo 0%), mentre il Belgio vanta la percentuale più alta, con il 46 %. Dati che, se uniti, permettono di tracciare una mappatura di una sorta di “parlamento autogestito” al di fuori delle sedi europee prestabilite. Una delle particolarità di questa proposta scenica sta, di fatto, nel riuscire a creare una comunità europea virtuale che si può ritrovare tra le pagine del sito internet www.homevisiteurope.org, in cui vengono registrati i risultati di ogni sessione. Sfogliando i dati, ci si accorge di come sia facile, praticamente a portata di clic, conoscere le varie opinioni dei partecipanti di Home visit Europe, aprendo in questo senso molteplici riflessioni per alcuni dei più controversi dibattiti politici della nostra contemporaneità.

Inevitabile non interrogarsi, una volta giunti al suo epilogo, sul perché del gioco di Europa na casa, adattato interamente ad azioni di spett-attori: vincita o perdita? Scontro o incontro? Dibattito o confronto? Un interrogativo che richiama un passaggio delle Città Invisibili di Italo Calvino, quando il Kublai Khan si confronta “con un perché del gioco che sfugge”, mentre osserva le sue conquiste definitive come “involucri illusori” ovvero “il nulla”. Questo rimando restituisce l’idea dell’inevitabilità di interrogarsi circa il perché della dimensione ludica della proposta scenica e dove, di conseguenza, si riposizioni il teatro. Il regista Stefan Kaegi confida al proposito che “esiste l’intento di condurre una sorta di indagine sociologica, se non statistica, circa l’idea e la percezione che le persone nutrono nei confronti dell’Europa, senza voler giungere a conclusioni scientifiche, ma per smascherare come essa spesso si configuri più come un’utopia e per indurre gli individui ad una riflessione”. Ed aggiunge: “Credo che uno degli equivoci attuali, parlando di Europa, stia nel fatto di considerarla una materia di confronto tra nazioni, quando invece è una discussione che si origina più tra una città e l’altra poiché ci si identifica di più con il luogo in cui si nasce o si vive”. Ecco perché “la casa visita l’Europa”: poiché è da lì, da quello che in spagnolo viene definito come “hogar”, il “focolare”, che, nella linea scenica dei registi, si origina tutto.

Il limen attraversato da Europa na casa è precario, difficile, frastagliato. Se il confine tra scena e realtà è pressoché labile, se non del tutto inesistente, l’ulteriore domanda che ci si pone è quanto esperienze come quella offerta da Europa na casa conducano il teatro stesso oltre a un ripensamento scenico rispetto al ruolo degli individui che vi prendono parte e rispetto al senso di una tipologia di teatro partecipativo. Oltre l’Europa, oltre la scena, al termine del gioco, lo spett-attore si interroga circa il ruolo assunto durante lo svolgimento dello “spettacolo”: attore, giocatore, politico, membro di un partito, avversario? Nessuno vince sull’altro, ma tutti creano un certo disorientamento che conduce a domandarsi se il teatro, in questa sua dimensione partecipativa, possa permanere in equilibrio anche lì oltre quelle mura bianche e per certi versi invisibili. Resta una transitoria e avvincente domanda aperta.

Carmen Pedullà