visto al Teatro Ringhiera di Milano_12-13 Novembre 2011
In linea con la sua vocazione alla condivisione, Atir lascia ‘le chiavi di casa’ del Teatro Ringhiera alla giovane compagnia Fattoria Vittadini che presenterà, nel corso dell’intera stagione, sette lavori. Nato nel 2009, il gruppo è composto da undici diplomati alla Paolo Grassi desiderosi, proprio come i fratelli maggiori di Atir, di continuare un’esperienza nata tra i ‘banchi’ dell’accademia. Così in repertorio si alternano spettacoli firmati da nomi come Ariella Vidach e Luciana Melis a progetti realizzati interamente in proprio. Fattoria Vittadini ha subito capito che la residenza presso Atir è un’opportunità da cogliere e far fruttare al massimo. Nelle scorse settimane capitava di incontrare, nei foyer dei teatri milanesi, i danzatori della compagnia che si facevano personalmente carico della promozione del loro primo spettacolo al teatro di via Boifava, mentre il programma di sala distribuito al debutto conteneva un’accorata nota di ringraziamento rivolta ai padroni di casa.
E sono proprio l’energica autenticità dei danzatori, il loro sincero entusiasmo, la visibile emozione per un appuntamento importante gli aspetti che più coinvolgono delle due creazioni presentate. La prima è “John Doe”, progetto del 2009 pensato per quattro interpreti, che sviluppa la suggestione della non-identità: il nome che appare nel titolo è quello attribuito a un corpo morto di cui non si conoscono le generalità. La ricerca del coreografo Mattia Agatiello e della drammaturga Guendalina Murroni si sviluppa attorno ad alcuni temi: l’emarginazione, l’evocazione del confine tra Messico e Stati Uniti, la ripetizione senza senso di azioni che si svolgono in un non-luogo e in un non-tempo, l’impossibilità di comunicare e di evadere.
Di tutto questo, a dire il vero, non molto appare sul palco (eppure le note di regia parlano di “comunicazione chiara e precisa con il pubblico”): se ne colgono solo accenni, abbozzi. Tra i più interessanti, la presenza in scena di una scala, via di fuga che i personaggi non potranno mai realmente imboccare. Certo lo spettacolo appare ancora acerbo: la fusione tra danza e drammaturgia (dichiarata come obiettivo, per altro non così originale, del progetto) non è fluida né del tutto raggiunta, la parola sembra un orpello superfluo. L’impianto registico e coreografico trascende la narrazione e va piuttosto nella direzione dell’astratto: viene così meno l’uso di un linguaggio diretto e accessibile senza che, a fare da contraltare, ci sia un’esecuzione impeccabile di danza pura o un prodotto algido ma dall’estetica coinvolgente. Fattoria Vittadini indica, cioè, alcune vie possibili, senza però percorrerle.
Eppure – specie se tiene conto del fatto che è la prima creazione del tutto autonoma della compagnia – lo spettacolo non è privo di spunti interessanti, come alcuni momenti coreografici di insieme e alcune partiture a due eseguite a terra da due danzatrici che fanno respirare lo spettacolo. Non si può dire lo stesso per il secondo lavoro, “Whatami”, proposto la stessa sera: il breve studio di MariaGiulia Serantoni, a dispetto di una buona intuizione scenografica, cade nel didascalico nella coreografia e si mostra debole nella drammaturgia.
Nel complesso, la compagnia lascia intravvedere promettenti direzioni di lavoro e la determinazione necessaria a portarle avanti. Soprattutto piace e coinvolge il desiderio dei danzatori, quasi una palpabile urgenza, di divenire creatori, interpreti consapevoli, di non restare meri esecutori. Anche per questo, ne siamo certe, i risultati non tarderanno ad arrivare.
Maddalena Giovannelli
Chiara Trifiletti