Nella Milano pre-Expo che ama definirsi internazionale, poco arriva delle sperimentazioni teatrali europee ed extra-europee. Se il Piccolo e il Parenti si impegnano a portare in cartellone i mostri sacri della scena russa, quasi nulla di ciò che accade nella capitale per il Roma Europa Festival mette piede sul suolo meneghino. A prendersi carico di offire ai milanesi alcuni assaggi internazionali sono, significativamente, due realtà indipendenti: MilanOltre per la danza, e Danae per il teatro. Il festival, ideato e curato dal teatro delle Moire, dal 1999 cerca con costanza alternative a forme e spazi istituzionali; nomade per statuto – ma capace di trovare nei teatri della città interlocutori sempre disponibili per il suo programma – Danae si è ormai conquistato credibilità e fiducia di pubblico e critica (è del 2009 il premio Hystrio). La natura ibrida e contaminante del festival – tra allergia al teatro di establishment e volontà di puntare ad un programma di alta qualità – ben si è mostrata anche in questa seconda sessione della tredicesima edizione (2-5 Novembre): le Moire hanno accostato appuntamenti come l’informale warming up di apertura, nel loro spazio “LachesiLab” in zona Loreto, a debutti come quello di Steven Cohen, che ha visto un Out Off stracolmo di addetti ai lavori. Inutile dire che del regista e coreografo sud-africano, ospite anche della scorsa edizione di Danae, poco si è visto in Italia: la coproduzione franco-africana “The cradle of humankind” è una prima nazionale.
Sulla scena – plastica, bianchissima e impeccabile – oltre a Cohen c’è Nomsa Dhlamini, la sua tata ormai novantenne; quello che il coreografo propone è un viaggio attraverso l’evoluzione umana, la bestialità e la barbarie, il rapporto tra Africa ed Europa, la mercificazione degli esseri umani. Le immagini con cui Cohen evoca la tematica coloniale sono, a dire il vero, abbastanza trite: lo stupro umano metafora di uno stupro geo-politico, le cartine geografiche proiettate sul pavimento che evocano il “blank space” di conradiana memoria, lo spazio bianco poi insanguinato dalla violenza. Alcuni fotogrammi e i brevi slogan (“Whiteish white/pure black”) proiettati su un pallone onnipresente nello spazio scenico sembrano quasi provenire da una pubblicità di Oliviero Toscani.
Ma Cohen, almeno ad un primo sguardo, non sembra interessato a un rinnovamento della narrazione (post)coloniale; il cuore dell’operazione, invece, può forse essere rintracciato già nel titolo, La culla del genere umano. Le grotte della Cradle of Humankind (patrimonio dell’umanità per l’Unesco) appaiono a lungo riprese in un video: ed è qui, nella culla, che si realizza l’incontro più autentico tra Nhomsa e Steven. Finché sono sul palco – “fuori” – i due non fanno che (ri)mettere in scena i topoi che abbiamo elencato sopra: il bianco e la nera, nei ruoli reciproci che il canovaccio prevede. Lo spettatore trova conferme, si sente paradossalmente tranquillizzato nel riscoprire l’immaginario narrativo di una storia già tristemente nota.
Con la discesa nelle grotte, improvvisamente i punti di riferimento svaniscono e rimangono solo Nhomsa e Steven: impossibile portare nella culla l’armamentario artistico-culturale con cui fino a quel momento si è definita la relazione bianco/nero. Il punto di vista che le grotte offrono è spiazzante, anche in meri termini corporali e prossemici: i personaggi non possono rimanere sullo stesso livello, si alternano continuamente tra alto e basso. Lì è possibile per Nhomsa e Steven una relazione non mediata da parole, immagini, strumenti, oggetti. Ed è proprio questa relazione, purificata da schemi interpretativi, uno degli aspetti teatralmente più efficaci e coinvolgenti dello spettacolo, che risulta, per altri versi, un po’ algido: i ritmi cambiano di rado, ciò che accade sulla scena resta distante, la regia sembra non preoccuparsi più del dovuto della presenza del pubblico.
Ma nel viaggio di allontanamento dalla civilizzazione che conduce alla culla nessun compromesso è possibile: è la natura, in Africa, a fare l’uomo, e non viceversa.
Maddalena Giovannelli
Sara Sullam