Nel 2018 è apparso sul grande schermo Genesis 2.0, documentario apocalittico del regista svizzero Christian Frei. Su un arcipelago deserto della Siberia alcuni disperati cacciatori di tesori prendono a picconate la mastodontica carcassa di un mammut; dal corpo dell’elefantide, che congelava indisturbato dal Pliocene, stilla improvvisamente del liquido organico. La provetta che lo costudisce attira immediatamente l’attenzione di tutti gli aspiranti Frankenstein del mondo della biologia di sintesi, che l’occhio diffidente di Frei ritrae come fanatici demiurghi in competizione col Creatore.
I titoli di coda accompagnano il sentimento agrodolce dello spettatore: non sarebbe male accarezzare il pelo ispido di un mansueto mammut, ma se ci trovassimo dall’oggi al domani invasi dagli Spinosauri, chissà…

Cent’anni fa, respirando la tracotanza irrefrenabile della Russia sovietica, Michail Afanas’evič Bulgàkov fantasticava su questo stesso argomento, e tra il serio e il faceto convogliava le sue riflessioni in Cuore di cane.
L’estro satirico di Bulgàkov devia dalle angosciose predizioni di Mary Shelley: il placido e reazionario dottor Filip Filipovič Preobraženskij, eccellenza nel campo della ricerca medica moscovita, resuscita miracolosamente un cane meticcio tramite il trapianto di un’ipofisi umana; ma il mostrum antropocanino si rivela presto un coinquilino petulante, un esaltato militante leninista, tanto innocuo quanto insopportabilmente invadente.

Questa la storia che Licia Lanera ci racconta sul palcoscenico dell’Angelo Mai, dove gli spettatori vengono accolti dai guaiti del cane Pallino – a breve cittadino proletario Poligraf Poligrafovič Pallinov – che studia con stolido entusiasmo l’andirivieni dei pazienti del suo padre adottivo; l’attrice (che firma anche la regia dell’adattamento teatrale, accompagnato dal vivo dalla texture elettronica del compositore Tommaso Qzerty Danisi), interpreta felicemente la policromia della società moscovita, ritraendo impeccabilmente personaggi di genere, status sociale e specie differenti. A fare da contraltare al trasformismo dell’attrice una maschera bianca e inespressiva, tabula rasa sulla quale la fantasia dello spettatore, di volta in volta, disegna il sorriso imbarazzato di una donna ormai sfiorita, il sogghigno avvinazzato di giovani politicanti, la frustrazione che solca irrimediabilmente il viso di Filip Filipovič.

Le sonorità del sound design di Qzerty Danisi accompagnano l’andamento serrato delle prime scene, mentre il ritmo si dilata nel fulcro centrale della narrazione, quando l’ossessivo pentimento del dottore (“è un incubo, non lo sopporto più”) viene incorporato nella drum-machine e riproposto come ostinato voice over, rendendo palpabile al pubblico l’impasse esistenziale del protagonista, consumato dalla noiosa compagnia della creatura che ha messo al mondo.

L’opera bulgakoviana, già spoglia degli ammonimenti moralistici e delle previsioni catastrofiche di Mary Shelley – che tutt’oggi suggestionano la fantasia di Christian Frei – si libera del sarcasmo secolare di cui è originariamente intrisa: Licia Lanera estromette dal proprio Cuore di cane l’istanza satirica, l’altezzosa critica all’esaltazione proletaria, ritagliando dall’antigrafo l’intima tragicommedia del protagonista, che detona sulla scena con esiti gustosissimi. La rappresentazione della tracotanza umana si libra vivida e suggestiva: con raffinato umorismo, suscita il sorriso scettico e beffardo dell’uomo che si accetta per quello che è.
Il primo capitolo della trilogia Guarda come nevica che la compagnia Licia Lanera porterà avanti affrontando altri due autori russi (Anton Čechov e Vladimir Majakovskij) si chiude con un chiaro monito agli spettatori: attenzione, giocare a fare gli dei può rivelarsi di una noia mortale!

Chiara Mignemi

Guarda come nevica 1. Cuore di cane
di Michail Bulgakov
adattamento e regia Licia Lanera

foto di Manuela Giusto

visto all’Angelo Mai di Roma_3-4 dicembre 2018