Sul palcoscenico del Teatro della Contraddizione sono sospese, come un inquietante lampadario, alcune ossa. Basta questo unico oggetto a costruire l’ambientazione – ambigua fin dalle prime battute – di Malagrazia, tra le ultime produzioni firmate dal collettivo milanese Phoebe Zeitgeist.

Per il resto, quella che si presenta al pubblico è una stanza vuota, forse un bunker, dove due ragazzi, due fratelli, si sono rifugiati per sfuggire a un indefinito panorama apocalittico. Il passo tra rifugio e prigione è però breve, soprattutto se quelle quattro mura li separano da un mondo esterno incognito, minaccioso ma allo stesso tempo, tutto da esplorare. Questo spazio misterioso, solo vaneggiato nelle proprie fantasie di reclusi, viene battezzato “Malagrazia”: un nome che porta in sé la natura terribile di tutte le cose ma anche la loro irresistibile bellezza. Malagrazia è una terra devastata – teorizzano i due tra lucidità e delirio – che avrà bisogno certamente di un’opera di ripopolamento e procreazione da perseguire a ogni costo. Difficile dire se questo pensiero ricorrente, che ossessiona i due sia dettato dalla follia data dall’isolamento o si tratti, più semplicemente, dell’emergere di desideri reconditi dalla profondità del proprio animo. Fatto sta che l’inquietudine che nasce dalla contrapposizione fra interno ed esterno, conosciuto e ignoto, sicuro e pericoloso, pervade tutta la bella drammaturgia firmata da Michelangelo Zeno.

Dentro e fuori. Chiaro e scuro si alternano in continuazione. A plasmare lo spazio cangiante e il ritmo della performance sono allora soprattutto i cambi di luce e il tappeto sonoro che accompagna l’intero lavoro. I primi riescono nell’impresa di restituire allo spettatore la dimensione immaginativa: si passa da riflessi tenui di una cameretta al nero inchiostro del mare di notte – solo nell’oscurità infatti il pubblico può abbracciare la vista indescrivibile dell’isola di Malagrazia. I suoni invece sono per lo più rumori elettronici prodotti da due ricetrasmittenti attivate direttamente dai due interpreti. Multiformi quanto lo spazio che abitano sono anche i due protagonisti (Edoardo Barbone e Daniele Fedeli) che portano sul palcoscenico la molteplicità delle relazioni umane: sono fratelli, compagni di giochi, padre e figlio, uomo e donna. È così che per farsi un’idea di ciò che sta accadendo fuori, ma soprattutto tra i due fratelli, lo spettatore è costretto ad affidarsi alle domande infantili e pedanti che lancia talvolta uno dei due. Un tentativo spesso frustrato, dato che ogni risposta porta inevitabilmente con sé un’altra domanda, in un circolo che riconduce sempre al punto di partenza.

Ci si rende allora conto che quello che, di primo acchito, appare come un gioco per bambini è in realtà una strenua lotta per la sopravvivenza: il confine tra dentro e fuori si mischia ancora una volta. La distopia, la malagrazia, non ha un luogo definito, e sta tanto fuori quanto dentro al bunker dove a fondersi sono lecito e illecito, meraviglioso e terribile in una dimensione eccezionale ma del tutto umana. Nonostante i continui richiami biblici della drammaturgia, non c’è spazio infatti per alcuna giustificazione o trasfigurazione ultraterrena: il soffitto della stanza è troppo basso per ospitare divinità e il cielo sopra all’isola di Malagrazia troppo deserto. I due non diventeranno mai dei, né il loro è un castigo celeste. Si tratta piuttosto di prendere coscienza della propria inconfessabile umanità, di fare i conti con i dubbi che la rendono disperata: “Se cancelleremo le tracce della morte, la morte scomparirà. Se rimarremo soli esisteremo per sempre”.

Gli attori alludono al pubblico come allo stuolo di uomini che muoiono come mosche nel mondo di fuori; l’esistenza dello spettatore è così ammessa come ingombrante assenza, espediente che rende la scena ancora più isolata ma emotivamente vicina. Il finale travolge definitivamente lo spazio claustrofobico del palcoscenico e lo spettatore si ritrova affacciato, senza scampo, sull’immensità desolante del mare e sulla solitaria isola di Malagrazia. L’esito della folle impresa di ripopolamento dei due individui è un uomo-pesce che si fa strada dalla platea fino al palcoscenico, una discendenza ibrida, incompleta, imperfetta. Ma vi è malagrazia anche in questa imperfezione.

Chiara Carbone

Malagrazia
ideazione e regia di Giuseppe Isgrò
drammaturgia di Michelangelo Zeno
cura del progetto di Francesca Marianna Consonni
con Edoardo Barbone, Daniele Fedeli
architettura del suono di Stefano De Ponti
produzione Phoebe Zeitgeist
in collaborazione con Evoè, Rovereto / Teatro Civico 14, Caserta / Teatro Rossi Aperto, Pisa / AltoFest, Napoli / Odemà, Milano

Visto al Teatro della Contraddizione di Milano_ 11 novembre 2018