regia di Federico Tiezzi
Visto al Piccolo teatro Grassi di Milano _ 26 ottobre-14 novembre 2010
A chi si chiede se ha ancora senso andare a teatro per vedere l’ennesimo rifacimento dell’ennesima rivisitazione di una vicenda che tutti conoscono, la messa in scena della premiata coppia Tiezzi-Lombardi spazza ogni dubbio in proposito.
Affollano la platea della restaurata sala Grassi del Piccolo scolaresche in età liceale, trascinate a teatro dai professori nell’ipotesi che, vedendolo recitato, i giovani si possano avvicinare e davvero appassionare al tomone manzoniano, e adulti di ogni genere.
Se i bravi sono dei ragazzotti gonfiati che abitano in qualche paese alle porte della tangenziale milanese, e Renzo non vede l’ora di sfrugugliarsi la sua Lucia sotto le coperte, mentre Don Rodrigo fa della sua passione per il sesso e per le belle ragazze un inquietante chiodo fisso, metafora di un potere che non ha, allora il capolavoro manzoniano è vivo e vegeto e torna a parlare al pubblico di tutte le età, calco fedele di cancri e inquietudini, ma anche di mire e speranze che sono le cifre umanissime della storia che non cessa di mostrarsi sempre uguale.
Tiezzi, alla regia, intesse una storia di teatro nel teatro, riprendendo l’originale omaggio testoriano ai Sei personaggi di Pirandello, coinvolgente e veritiera. Dalla fatica delle prime prove, quando il Maestro, una figura a metà tra l’autore e il regista (l’ineccepibile Sandro Lombardi), cerca di indottrinare i suoi, fino alle bizze di primedonne e primi uomini mancati, passando per la riflessioni sulla miseria inestinguibile della condizione umana e infine approdando alla commozione che sollevano alcuni dei passaggi del capolavoro manzoniano, il teatro si fa storia e la storia si fa teatro.
A tutti, registi, attori, spettatori, davanti e dietro il palco, vien voglia di dire la propria, di riflettersi nello specchio che gli autori hanno predisposto per chi li legge.
Facilmente ci si riconosce nelle reazioni di Renzo, irruente e un po’ grossolano (il bravo Francesco Colella), che si caratterizza per gestualità esasperata e incontenibili sbotti d’ira, come accade a qualsiasi ragazzotto che venga messo di fronte a disegni superiori o, più banalmente, alle raccomandazioni di un adulto. E ancora, tutti vorrebbero avere la parte di Iaia Forte, vezzosa e sanguigna Gertrude, stretta nel suo ruolo come nella botola in cui l’hanno confinata, vera e unica Donna del romanzo (anche se l’attrice regala un’interpretazione leggermente in minore), mentre la pecorella Lucia (Debora Zuin) è ancora femmina in fieri, con tutti i dubbi e le paure di chi sa che sta crescendo e non potrà più tornare nelle rincuoranti braccia di mamma Agnese, criticona e affettuosa come tutte le madri.
In questo gioco di personalità abbozzate che si fanno e disfano dal romanzo alla drammaturgia e viceversa, fino all’interpretazione degli attori, basta muovere un secchio pieno d’acqua per mimare la fuga dai monti amati, si può mostrare un grande ritratto fac simile dall’originale di Tanzio di Varallo per evocare la potenza dell’Innominato, è sufficiente sventolare un megafono per suggerire la rivolta per il pane nelle vie assediate di Milano. È il teatro, bellezza.
Lo spettacolo regge i ghirigori della parola testoriana e i lunghi, incalzanti monologhi che sono traccia imprescindibile del suo teatro, forse solo appiattendosi un po’ nel secondo tempo, quando anche l’incedere della storia viene appesantito dall’apparire sulla scena dei temi più cari al Manzoni: la pietà, la peste-giudizio universale, la conversione.
Ma il cerchio torna a quadrare quando, chiuse le prove a notte fonda, è il maestro a congedare i suoi allievi, con un augurio che prima di essere insegnamento è vita che si fa parola, ricerca di senso e passione, per emergere e sopravvivere: «A voi, superata questa prova, cosa può dirvi, congedandovi, il vostro maestro? Che, se nella vita o qui sulla scena, incontrerete, com’è giusto, difficoltà, dolori, ansie e problemi, battete alla sua porta. A quella di lei. La speranza».
Francesca Gambarini