Com’è iniziata la sua carriera? Com’è arrivato alla regia?

Sarò diretto: io arrivo dalla musica, sognavo di fare il musicista e ho studiato trombone al Conservatorio. Mi piaceva giocare con degli elementi improvvisativi con la musica. Inizialmente mi era stato chiesto di comporre delle colonne sonore, anche se è un termine che non mi piace, per alcune rappresentazioni teatrali, ed è stato in quel momento che mi sono avvicinato per la prima volta al teatro. Non so se sono stato io a trovare il teatro o se è stato il teatro a trovare me. Successivamente, un po’ per gioco un po’ per passione, ho iniziato a recitare. Ho iniziato a frequentare un tipo di Accademia di teatro, ma un po’ più applicata sul campo. A questo punto ho iniziato a recitare in modo sempre più professionale. Due sono stati gli incontri, che reputo importanti, e che più hanno segnato la mia carriera: quello con Dario Manfredini e quello con Federica Fracassi; quest’ultimo avvenne quando ero più giovane, diciottenne.
All’epoca smisi di recitare perché non mi sentivo bravo o perché non mi sentivo così preparato tecnicamente, anche perché la parte dell’attore si recita prima con il corpo che con la voce, quindi è molto complesso. Io ho molta stima degli attori, mi fanno invidia. Col tempo, passai da attore, o meglio, da musicista ad attore [ride] a occuparmi di quella che comunemente viene nominata regia, ma che io preferisco chiamare “pensare e dirigere un progetto”, per dare una direzione poetica ad un testo attraverso degli elementi direttivi, per mettere in scena lo spettacolo. Diciamo che col tempo “sono andato dall’altra parte”.

Com’è il suo rapporto con gli attori? Lascia loro libertà o in genere dà direttive che non vuole siano cambiate?

È una bella domanda. In sintesi, per rispettare ciò che stai chiedendo, reputo che il regista non debba esigere, perché chi dirige orchestra un gioco – la traduzione inglese di recitare è to play – di conseguenza il regista gioca con gli attori, e per conquistare la loro fiducia e complicità non può esigere. Al contempo però non credo nell’auto-regia e nell’improvvisazione. Sicuramente con gli anni si affina di più il carattere del ruolo che si riveste, ossia è una testa che deve spiegare il progetto, deve cercare di dirigere gli attori e dar loro dei caratteri, cercare di comporre la regia e di spiegare certe scelte. Ognuno affina le armi e i propri strumenti per trovare la cosa migliore. Le idee non sono niente se non ci sono i corpi dall’altra parte che le traducono. L’amore si fa sempre in due. Il problema è trovare attori bravi, ma che sappiano anche capire il tipo di attenzione che richiede il progetto. In quel caso la regia diventa più semplice. Io non credo alla regia di gruppo, c’è comunque una linea da tracciare.

Qual’è il suo modo di fare regia?

L’esempio più concreto che mi viene per rispondere alla tua domanda è che il mio modo di far regia ricorda un imbuto: all’inizio l’attore deve sentirsi nella zona larga dell’imbuto, ossia deve sentirsi abbastanza libero; parentesi: a volta la regia è anche un bluff, perché c’entra molto anche la psicologia e tante altre cose. Il problema della regia è indirizzare l’imbuto. Per dire, cosa stiamo facendo? Una tragedia? Una commedia? Quindi, quando arriva l’attore questo imbuto è già indirizzato. Il problema è che lo iato abbastanza largo diventa sempre più stretto. Comunque, imporsi penso che non serva a niente; serve un gioco di complicità. Per giocare servono comunque delle regole.

Com’è il confronto tra gli attori e il testo?

Quell’io che siete voi, perché ho bisogno degli altri per stare in piedi. Quando lavori da solo non devi interfacciarti con nessun altro, sei solo tu e il copione, materia inerte, invece quando lavori con gli attori cambia tutto. E questo succede spesso: quando si inizia a lavorare con gli attori, c’è già stato del lavoro prima, ma devi essere disposto ad avere un alfabeto largo per indirizzare al meglio il lavoro, e non devi avere paura di togliere delle lettere che non servono all’alfabeto del tuo lavoro a casa. Tutto diventa diverso. Non impari il lavoro a tavolino. Impari a farti semplicemente leggere il copione, perché quando lo leggi tu è diverso da quando lo legge qualcun altro. Tutto questo giro di parole per dire [ride] quello che ho detto all’inizio: per me la regia trova la sua natura dalla parte intellettuale, che è molto importante, che poi però si trasforma nella rappresentazione con gli attori senza esigere. Si passa dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.

Ha mai collaborato con un personaggio rinomato? Cosa ne pensa della collaborazione tra colleghi?

Sì ho lavorato con Eduardo De Filippo con compagnie di teatri stabili. Collaborare con un attore che ha visto un tuo spettacolo può essere interessante, perché può nascere un’affinità dovuta alla condivisione della poetica. Al momento della collaborazione, l’attore può trovarsi spiazzato o a suo agio, dal momento che guardando lo spettacolo può non conoscere il lavoro che c’è prima.

Su che base sceglie gli attori?

Non mi baso affatto sul provino. Penso che oltre alla base tecnica, che trovo fondamentale, bisogna anche capire la psicologia dell’attore.

Di che tipo di teatro preferisce occuparsi?

Io faccio un teatro più contemporaneo, che penso sia epigono di uno più classico che trovo altrettanto prestigioso. Prediligo i testi importanti in quanto il teatro amatoriale mi interessa di meno.

Per concludere, abbiamo pensato di chiederle dove si vede tra dieci anni e quali evoluzioni intravede nel mondo del teatro e nello spettacolo in generale. 

Qui sono molto pessimista, perché è molto difficile immaginarmi tra dieci anni. Penso che in questo momento il teatro viva un momento di decadenza e confusione, soprattutto in Italia, nonostante i giovani vengano a pormi delle domande anche dopo la rappresentazione. Ma non vorrei che ciò suonasse come una polemica. Il teatro è la mia vita, che lavora e scolpisce nel tempo, una materia ancora viva, necessaria, proprio perché penso siano parole che restano, e per “parole” intendo quelle appartenenti allo spettacolo, quindi anche una scena, un corpo di un attore al di là della lingua e le scelte che poi vengono messe in campo. Un attore giovane o meno giovane in questo momento lo vedo come se fosse l’ultimo bagliore di un qualcosa che è importantissimo, di qualcosa che non può venire perso.

Chiara Biagi, Margherita Ferdinandi, Alessandro Taglioli, Anna Varvara, Ludovica Zampieri