30 gennaio – 5 febbraio 2017

da I fratelli Karamazov di Dostoevskij
riscrittura di Letizia Russo
regia di Serena Sinigaglia
visto al Piccolo Teatro di Milano _ 28 febbraio-5 marzo 2017

La sensibilità di Serena Sinigaglia per i classici, unita alla bravura granitica di un attore come Fausto Russo Alesi e all’ispirazione di una drammaturga e traduttrice di esperienza ormai più che decennale come Letizia Russo, fanno di Ivan uno scrigno di ispirazione e riflessioni, un esercizio di teatro alto e appassionato, che lo spettatore può godere appieno, sia che sia un profondo conoscitore dell’opera cui si rifà, I fratelli Karamazov di Dostoevskij, sia che lo abbia visitato solo da lontano.
Certo, ci vuole un poco di impegno. Di concentrazione e stimolo: siamo davanti a uno di quei testi universali, vera e propria pietra del pensiero occidentale, che rischia di far naufragare ogni tentativo di riduzione o adattamento volto a conservarne il senso.
E se in questo caso non spaventa la forma classica della messa in scena – un monologo, un attore che dà voce a diversi personaggi, una scrittura a ringkomposition, una scena minimale ma significante –, la durezza del testo e la fatica si percepiscono in ogni caso. Ricompensate, per lo spettatore che si voglia mettere alla prova, dalla pienezza delle riflessioni, dallo scambio, quasi fisico, dei tormenti del protagonista, dal viaggio dentro un testo sacro come è l’ultimo dei romanzi di Dostoevskij.

Sotto una spirale di pagine di libri ingiallite e strappate (le scene sono di Stefano Zullo), sospese sullo sfondo di un universo nero – quello del dubbio? Del peccato? Della miscredenza verso cui sprofonda Ivan? –, il secondo dei fratelli Karamazov racconta la sua storia. È su di lui che si concentra, aiutata dal decano di Letteratura Russa Fausto Malcovati, l’operazione della Sinigaglia, regista anche in questo caso vibrante e materica, precisa e stimolante. Ivan parla come un automa, stordito dai suoi stessi pensieri, e  si chiede: chi è, che cosa è questa mia famiglia Karamazov, che sembra ineluttabilmente destinata al peccato, al male, alla violenza? Eccola questa famiglia: ci sono il padre Fiodor, violento e cattivo, e il fratello Alioscia, pio e buono. È con lui che veniamo traghettati nel cuore dello spettacolo, la storia nella storia: Ivan gli legge alcune pagine del suo scritto La leggenda del grande Inquisitore. A lui, che ha fede nella Fede, l’ateo e blasfemo Ivan dispiega i tormenti della sua mente miscredente. Che si chiede se il regno dei cieli non sia uno spettacolo sopravvalutato e se l’uomo abbia davvero il diritto di perdonare o Cristo quello di tornare sulla terra, a disturbare. Disturbare come? Domandando per gli uomini la libertà, prezzo troppo alto da pagare per esseri naturalmente votati ad accogliere la banalità del male; oppure, all’opposto, il miracolo, che è esso stesso negazione della scelta.
“L’uomo non cerca Dio ma i miracoli”, dice l’Inquisitore, conscio che la libertà predicata da Cristo costa fatica e sacrificio, grandezza d’animo. La meritiamo davvero? Forse no, è la conclusione di Ivan alle fine del concitato racconto, che sorge dalle parole e dai gesti come un quadro espressionista.

La storia riprende: il padre è stato ucciso. Ivan sa di essere il mandante morale del delitto, che non ha compiuto ma alle cui conseguenze non può sottrarsi. Nel delirio, affronta la visione del diavolo, che lo tenta, lo accusa, lo compiace. È l’ennesima trasfigurazione di Alesi in scena, un Mefistofele poliglotta “coi reumatismi”, snodato e incalzante, a tratti macchiettistico.
È tempo di tornare alla domanda da cui tutto era partito. Meritiamo davvero di essere liberi? Forse, dice Ivan, con il progredire della scienza e della tecnologia l’uomo capirà che non è immortale e smetterà di anelare al paradiso; potrà quindi amare i suoi simili in modo disinteressato, senza bisogno di attendere una ricompensa. Ma davvero l’uomo vuole vivere così? Il giovane torna in sé. Il viaggio è finito.
Ma per un’ora e poco più siamo stati tutti uomini come Ivan, nudi di fronte alla scelta e ai rischi che essa sempre comporta. Nudi di fronte al pensiero, costretti a riflettere, come sempre ci abitua a fare il teatro di Sinigaglia. E non è importante se la risposta, come in questo caso di claustrofobica spirale di dubbi, non arriva.

Francesca Gambarini