«La grandine potrebbe non smettere mai». È ferma la voce con cui Paola Berselli – una carriera trentennale spesa al servizio del Teatro delle Ariette – soffia una verità dolciastra, spaventosa eppure rassicurante nella sua pienezza. A muoverne la gestualità lenta nella cornice del Chiostro del Palazzo delle Laudi, ad animarne le espressioni è una certezza ancestrale: il tempo, sia esso meteorologico o cronologico, gioca una partita differente rispetto a quella in cui si agitano convulsamente donne, uomini, città. Le nostre strategie di resistenza, le grandi e piccole tattiche con cui proviamo ad arginare l’imprevedibile e a metterlo sotto scacco, si rivelano mere illusioni: un nubifragio potrebbe distruggere il raccolto e annientare un anno di fatiche; un virus sconvolgere un’intera epoca, sigillare case, chiudere teatri. E tuttavia è di fronte alla fine – del mondo, della storia, delle nostre storie – che, con Martin Luther King, dobbiamo forse continuare a «piantare un albero di mele». Procrastinando il nulla, continuando con pervicacia a compiere il nostro lavoro.

La locandina di Kilowatt 2020

Intitolata come il più celebre romanzo di Louis-Ferdinand Céline, l’edizione 2020 di Kilowatt Festival pone al centro del proprio dispiegarsi la volontà di attraversare la notte, di viaggiare fino al suo termine, con la stessa ostinazione condensata dalla battuta di Berselli, ma anche nella chiara coscienza dell’inanità di un tale sforzo, di quanto l’oscurità sia per essenza infinita. Eppure non c’è alcuna rassegnazione nelle parole con cui Lucia Franchi e Luca Ricci hanno accompagnato il denso cartellone, quanto invece una volontà di agire – una volta ancora, a diciotto anni di distanza dal primo giorno – insieme al borgo aretino e a una folta comunità teatrale, per percorrere questa notte e quelle che verranno, abitandole e illuminandole. Dei cinquantadue spettacoli inizialmente previsti, solo quattordici sono stati annullati: perché firmati da compagnie straniere impossibilitate a viaggiare, perché rimasti a una forma ancora incompiuta, oppure perché non realizzabili se non violando le norme di distanziamento sociale. Proprio tali norme hanno però rappresentato l’occasione per far deflagrare all’interno della città la programmazione del festival, garantendone inoltre la visione in live streaming – grazie a uno schermo allestito in piazza Garibaldi – anche a chi non ha potuto partecipare a causa della capienza ridotta degli spazi. Ecco che il tempo della notte è sembrato tramutarsi, ecco che il suo protrarsi si è fatto ricchezza, possibilità. Lungi dal negarla, il teatro dell’edizione 2020 di Kilowatt ha giocato con l’eternità, l’ha manipolata finanche nei suoi aspetti più drammatici, cristallizzando la reiterazione dei medesimi istanti in prismi vitali, cangianti proprio perché perennemente identici.

Trent’anni di grano del Teatro delle Ariette (ph: Luca Del Pia)

Trent’anni di grano delle Ariette è in questo senso il paradigma di un intervento sul tempo lunghissimo delle stagioni, su quello di esistenze accordate sul ritmo mai sincopato della natura, addomesticata e ciò nonostante sempre inedita. Di una «consapevolezza del per sempre» posta alla base stessa della poetica della compagnia parlava con efficacia Rossella Menna in un articolo dedicato a Tutto quello che so del grano, creazione che trovava il proprio fulcro drammaturgico nella biografia di Paola. Quello «scegliersi una volta sola, con la certezza che nella gioia o nel dolore l’altro rimarrà la tua famiglia, il tuo ritorno, la tua origine» è ancora una volta il motore scenico primario: al centro dell’attenzione è la vita, nient’altro che la vita di una coppia di sposi, che nel 1989 abbandonano la città per rifugiarsi nel podere delle Ariette, e lì edificare un’utopia artistica e sociale. Con l’incoscienza di un Fitzcarraldo, Berselli e Stefano Pasquini – sempre affiancati, a partire dal 1996, da Maurizio Ferraresi – fondano la compagnia ed erigono un teatro in mezzo ai campi, che di essi è il tempio laico: l’arte scenica che da allora il Teatro delle Ariette realizza è impastata della terra della Valsamoggia, del suo odore, dei colori del grano, del silenzio dei suoi spazi. E gli spettacoli che da quell’anno realizzano in teatri, piazze, appartamenti privati, sono il riverbero di un tempo contadino, in grado di sfidare la transitorietà e afferrare, nelle parole di Berselli, la «felicità dell’eterno».

Trent’anni di grano del Teatro delle Ariette (ph: Luca Del Pia)

Ad ascoltare i pensieri che la donna ha affidato a un diario, tenuto lungo un’estate trascorsa tra campi e sale prove, la felicità sembra in effetti a portata delle nostre mani: sta nella fragranza delle tigelle che Ferraresi e Pasquini – chiamato amorevolmente “Pasqui” – preparano per gli spettatori, disposti sui tre lati del chiostro; si rivela nello sfregare una spiga di grano, e vederne i chicchi sfuggire uno a uno; si manifesta nello scoprire quanta dignità sia possibile imparare dalla morte di una cavalla. Trent’anni di grano, che fin dal titolo mette in luce la dilatazione ad libitum di un’esistenza sempre uguale a sé stessa eppure così sorprendente, sembra però porsi al riparo da qualsiasi retorica pauperista proprio per la completa, cristallina adesione autobiografica a un progetto: nel ripercorre la lunga gestazione dello spettacolo, creato per Matera 2019, Berselli racconta del campo di grano “adottato” in Basilicata e del primo incontro con quelle spighe, necessario e vitale tanto per la riuscita della produzione quanto, si direbbe, per il commosso entusiasmo della compagnia. La coerenza tra vita e arte non si traduce qui in sofisticate teorizzazioni: quella del Teatro delle Ariette è una pratica quotidiana di lavoro contadino e spettacolare, un biunivoco e salvifico influenzarsi di ambiti e paesaggi. Chicchi di grano ricoprono il lastricato del chiostro, mentre le lacrime invadono gli occhi di Paola, e i gesti misurati di Pasqui e Maurizio – una coreografia silente – accompagnano la preparazione di un pasto condiviso. Dopo trent’anni o forse dopo secoli, è una danza di mani e farina a portare alla luce l’eterno e la sua verità: una volta ancora, verbum panis factum est.

L’incidente è chiuso di Menoventi (ph: Marco Parollo)

Verità ed eternità sono, d’altro canto, tra i fulcri concettuali di L’incidente è chiuso, lavoro di Menoventi presentato nello spazio del Chiostro di San Francesco e prima tappa di un progetto triennale dedicato a Vladimir Majakovskij. Tratta dal romanzo-inchiesta di Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi, la creazione diretta da Gianni Farina prende le mosse dall’enigmatico suicidio del poeta sovietico, e da esso istantaneamente si allontana, trasformando un’indagine “di genere”, quasi un giallo teatrale, in un sofisticato gioco drammaturgico e filosofico. Non c’è soluzione al mistero che dal 14 aprile 1930 appassiona storici, lettori e letterati: a esplodere il proiettile che squarciò il cuore di Majakovskij fu la sua amante Polonskaja, o forse un agente della polizia politica di Stalin; si trattò di istigazione al suicidio, dell’esito drammatico di una tossica relazione d’amore, oppure di un gesto con il quale consegnarsi a una fama imperitura.

L’incidente è chiuso di Menoventi (ph: Marco Parollo)

 

Certe sono invece le contraddizioni nelle testimonianze, soprattutto tra quella rilasciata da Polonskaja subito dopo la scoperta del cadavere e quella fornita a otto anni di distanza dal fatto: Federica Garavaglia alterna così toni e posture, nel vertiginoso susseguirsi di situazioni temporali che ne fanno ora una piagnucolosa e indecisa attricetta, ora una sfrontata signora borghese. A condurre tanto l’interrogatorio del 1930 quanto l’intervista del 1938 è sempre Consuelo Battiston, volto e voce di algido rigore, apparsa dal futuro remoto nel quale Majakovskij immaginò la vicenda di Banja. Da quello sfortunato dramma – una corrosiva satira del mondo stalinista, funestata da critiche e insuccessi, il cui centro tematico era rappresentato da una macchina del tempo – Battiston è catapultata nel presente di Sansepolcro e negli anni trenta di Mosca: è lei, estranea dal trucco fluo e dall’abito bianco sul quale scorrono traiettorie arancioni rese luminescenti dalle lampade di Wood, ad accompagnare gli spettatori in un’indagine sulla scomparsa del poeta e su un mondo destinato al collasso. La società sovietica è incapace di comprendere la fragilità e il genio di Vladimir, al punto che a risuonare nello spazio del chiostro sono, alle nostre spalle, le risate con cui vennero accolte le intuizioni politiche di Majakovskij, pronunciate cinque giorni prima della morte in una conferenza pubblica e qui affidate alla voce di Mauro Milone.

L’incidente è chiuso di Menoventi (ph: Marco Parollo)

Al suo corpo, invece, spetta il compito di franare a terra, di crollare ancora e sempre in proscenio, un istante dopo lo sparo, in un re-enactment della morte del poeta che affida all’oggi la sua vita, la sua inattualità. Tuttavia, nel divertissement delle reiterazioni sceniche e verbali, nel vertiginoso andirivieni tra date ed eventi che a tratti sembra comprimere le qualità attoriali del gruppo, i Menoventi non soltanto proiettano nella contemporaneità il magistero di Majakovskij, ma soprattutto proseguono ad agire lungo il crinale che separa l’implosione della trama dal suo dipanarsi, il dispositivo dalla drammaturgia. Se già in Docile il racconto sembrava, pur nel suo criptico sfrangiarsi, limitare o sostituire la dissoluzione della narrazione, con L’incidente è chiuso il conflitto tra linearità della vicenda e sua metamorfosi in ingranaggio trova nuova linfa nel ricorso agli stilemi del noir: le ricostruzioni possibili, potenzialmente infinite, dell’istante della morte; la messa in luce delle aporie nelle testimonianze, condotta con acribia giornalistica; la preminenza scenica affidata al cadavere. E il tempo – gli inciampi e i ritardi, le accelerazioni e le stasi – appare chiaramente come la chiave formale grazie alla quale forzare, una volta ancora, le serrature del teatro. Così da far sembrare vicina, umanissima, la conquista dell’eternità.

Alessandro Iachino


TRENT’ANNI DI GRANO. AUTOBIOGRAFIA DI UN CAMPO
ideazione e interpretazione Paola Berselli, Stefano Pasquini
e con Maurizio Ferraresi
regia Stefano Pasquini
scene Teatro delle Ariette
segreteria organizzativa Irene Bartolini
ufficio stampa e comunicazione Raffaella Ilari
co-produzione Fondazione Sassi Matera

L’INCIDENTE È CHIUSO
di Consuelo Battiston, Gianni Farina
con Consuelo Battiston, Federica Garavaglia, Mauro Milone
regia, suono, luci Gianni Farina
tratto da Il defunto odiava i pettegolezzi di Serena Vitale (ed. Adelphi 2015)
organizzazione e promozione Ilenia Carrone
immagine Marco Smacchia
co-produzione E-production, Operaestate Festival Veneto
ringraziamenti Elisa Alberghi, Emiliano Mattioli, Corradina Inca Carveni, Claudio Ricciardelli, Mirto Baliani, A.N.G.E.L.O.