L’Istat apre il rapporto 2018 con una frase choc, che rispecchia la liquidità del nostro tempo: “La classe operaia ha abbandonato il ruolo di spinta all’equità sociale mentre la borghesia non è più alla guida del cambiamento e dell’evoluzione sociale”. Eppure qualche operaio in Italia esiste ancora: lo scorso febbraio un dipendente Fiat si è urinato addosso perché non ha ricevuto il permesso di lasciare la catena di montaggio; alte percentuali di lavoratori del grande smistamento di Amazon sono sotto psicofarmaci e, solo nel 2017, sono stati registrati 1029 incidenti mortali sul lavoro (fonte INAIL), la maggior parte dei quali hanno coinvolto manovali, braccianti, salariati ecc. Quindi se tra gli operai contiamo solo i lavoratori in fabbrica, è vero che i numeri sono molto più bassi rispetto a qualche decennio fa, ma come classificare allora quei milioni di italiani, precari, co.co.pro, a progetto, finte partite iva, tirocini e stage più lunghi di un contratto a tempo determinato? Questa nuova classe sociale, schiava come quella operaia del sistema capitalistico, come si guadagna il Paradiso?
Sono questi solo alcuni degli interrogativi con cui si arriva alla visione del nuovo spettacolo di Claudio Longhi, La classe operaia va in paradiso, la cui riscrittura drammaturgica a opera di Paolo Di Paolo (autore oggi più che mai sulla cresta dell’onda) riprende il film cult di Elio Petri sceneggiato insieme a Ugo Pirro, con protagonisti due mostri sacri “in stato di grazia” come Gian Maria Volonté e Mariangela Melato. Un’opera contestatissima quella di Petri che, nonostante il Grand Prix per il miglior film al Festival di Cannes 1972, venne aspramente discussa dalla critica e dal pubblico alla sua uscita nelle sale nel 1971, tanto da indurre anche un cineasta schierato politicamente a sinistra come Jean-Marie Straub a dichiarare che tutte le copie dovessero essere bruciate. Nella rilettura di Longhi a fare da sfondo all’intero spettacolo è una grande e verdissima catena di montaggio: il rullo trasporta scatoloni e le vite degli operai, macchinari e schiene spaccate dopo otto ore di lavoro. Un’immagine che proietta lo spettatore in un costante presente: un operaio, interpretato da Lino Guanciale, incarna i sentimenti che accomunano diverse epoche, un romagnolo del 1910 costretto a lavorare in Umbria mandando i soldi a casa; un meridionale alla catena di montaggio negli anni Sessanta, un geometra retrocesso a operaio negli anni Ottanta e un superstite del settore secondario nel nuovo millennio. Dai primi dell’Ottocento nelle fabbriche a carbone ai grandi e ormai rari capannoni nelle nostre periferie, il sentimento non è cambiato. Non è solo però la bella scenografia firmata da Guia Buzzi a fare da cornice allo spettacolo, Longhi sceglie infatti di inserire le vicende dell’operaio Lulù Massa in un gioco meta teatrale in cui sono gli stessi Petri e Pirro a studiare e meditare come scrivere la storia, cosa dire e come parlare, chi far intervenire e perché. Un work in progress che accompagna le tre ore di spettacolo, acuendo l’atemporalità ricercata del testo di Di Paolo. Abiti anni Settanta, spiccato accento lombardo e crumiro convinto, Lulù è la macchina del sistema: la fabbrica non può andare avanti senza di lui, ne è così convinto da preferire il cottimo alla solidarietà di classe. Finché non avviene l’incidente, la perdita di un dito e di tutte le sue sicurezze, compreso il lavoro. Stare dalla parte dei lavoratori o del padrone?
Il menestrello Simone Tangolo con sottile ironia contrappone un passato e un presente più vicini di quanto si possa pensare, intramezzando con la sua chitarra alcuni quadri in cui è suddiviso lo spettacolo con canzoni dal sapore nostalgico. Si sorride a denti stretti, pensando a quanto poco sia cambiata la situazione. Le domande iniziali non trovano risposta con lo spettacolo, ma il merito della messa in scena di Longhi è che prova invece a evidenziare le uguaglianze tra la classe operaia di ieri e le odierne forme di lavoro dipendente. È così che ripercorrere la storia di Lulù innesca un duplice movimento: da un lato alimenta il flusso di coscienza della generazione che ha vissuto quegli anni e lottato per ideali ormai svaniti, e fa prendere coscienza di tutto ciò che non si è mai raggiunto. Dall’altro lato suscita la nostalgia e la rabbia della nuova generazione, che quegli ideali se li è solo sentiti narrare da genitori sessantottini, e che ha fatto del precariato uno stile di vita.
Giulia Alonzo
La classe operaia va in paradiso
liberamente tratto dal film di Elio Petri
Drammaturgia di Paolo Di Paolo
Regia di Claudio Longhi
Produzione ERT-Emilia Romagna Teatro Fondazione
Visto al Teatro Arena del Sole di Bologna_14-18 febbraio 2018