di Chiara Guidi
visto al Teatro Comandini di Cesena nell’ambito di Osservatorio Màntica _ 6 dicembre 2015
Che Gola, ultima creazione artistica di Chiara Guidi, sia in un certo senso l’emblema di Osservatorio Màntica lo suggerisce già il titolo: impossibile non scorgere entro i confini del termine un rimando alla voragine, all’abisso quale fulcro centrale cui la Guidi ha deciso di dedicare la ricerca dell’osservatorio di quest’anno. Ma Gola nasce, prima ancora, come l’idea, in stato nascente, di offrire allo spettatore un luogo altro in cui evocare più immaginari, esponendolo alla visione di una certa alterità, peraltro mai definitoria.
Non stupisce allora, all’ingresso in sala, di trovarsi avvolti da una lieve penombra, posti proprio di fronte a una schiera immobile di donne e pochi uomini. Potrebbero essere anime, fantasmi o ombre che attendono, immobili. Solo la voce di Ewa Klonowski, nel “suo inglese selvaggio” inizia a scandire un tempo che pare dilatato. Si distingue la parola grave, “tomba”. Si deduce allora che le parole di Ewa abbiano a che fare con la descrizione del processo di riesumazione dei corpi che accompagnerà il pubblico per tutta la durata dello spettacolo. Sul fondo, appare la figura di una bimba che giace a terra, morta. Mano a mano che questo microcosmo crepuscolare prende vita, si resta disorientati dalla successione di gesti e di interruzioni, di grida e di cadute, di frammenti gettati a terra e di domande lasciate cadere nel vuoto. Le azioni cui gli attori danno vita corrono su piani paralleli: le ombre di quattro donne, trattenute da alcuni paraventi, lanciano la domanda: “Cosa vuoi dire?”. Come risposta, il tonfo freddo dei corpi che cadono a terra. Una bambina esplora lo spazio che la circonda immersa in uno strano “gioco della conta”: dall’uno fino a numeri che di volta in volta si moltiplicano. Sono i morti, che appaiono in scena dietro lunghe strisce nere di terra. Si alzano in aria dei fogli accartocciati: ossa, nient’altro che ossa. Mentre la voce di Ewa continua a scandire il tempo, un coro sul fondo recita un mantra del terrore. Qualcuno invoca i nomi: “Matteo?”, “Anna?”, “Giacomo?”, “Alessandra?” mentre un urlo squarcia la scena. Buio. Una voce rompe il silenzio: “Ricominciamo?”. Si accendono le luci, si ripulisce lo spazio e via, si inizia da capo. Il pubblico resta disorientato: chi si alza e se ne va mentre bisbiglia “tanto ormai è finito”, chi invece decide di restare ad osservare le figure nere che simili ad api operaie ricompongono la scena dall’inizio alla fine per due o tre volte di seguito. Quando gli ultimi spettatori abbandonano la sala, il rituale continua a comporsi fino ad esaurirsi dietro alle loro spalle.
“L’angoscia è immensa, senza limiti”. Inevitabile il richiamo, per un finale che non si formalizza, alla novella Angoscia di Cechov, testo di riferimento dello spettacolo: il rimando suggerito si ricollega infatti all’inesauribilità di un processo, come quello dell’esumazione dei corpi, che non può conoscere la parola “fine”. Ma in realtà quel che soggiace dietro all’impossibilità di una conclusione, sta nel desiderio di Chiara Guidi di creare una comunità di insetti lasciandola sospesa nella sua operosità. Un’idea nata l’anno scorso durante il laboratorio “Nella tana del tasso”, che per brevi passaggi ha aperto lo spettacolo a più movimenti paralleli, così come li chiama la stessa Guidi: ora il pianto di due donne, stretto nell’abbraccio occultato da un velo nero a richiamare la figura della doula, la serva che consola, primo impulso creativo; ora la voce di Ewa e il rimando alle fosse comuni; ora le domande che cadono nel vuoto per il dolore inconsolabile del vetturino Jona Potàpov di Angoscia, appunto. “Sta a te, spettatore, – suggerisce Chiara – cambiare il punto di vista”. Che la Guidi non accompagni il pubblico alla visione ma lo immerga in un molteplice divenire appare chiaro, incitando ciascuno a “diventare straniero e ad inseguire l’invisibile”.
Gola, paradossalmente, per quanto la parola evochi idee di profondità, nasce e si perpetua nella sospensione. E allora i fili rossi che si dipanano in scena, srotolati da due donne, non ne sono che il simbolo, nel loro incrociarsi sospeso, mai per contatto. Chi osserva quei tre fili prova un moto confuso di sensazioni. Caduta o sollevamento? L’occhio, nella vertigine disorientante dei movimenti paralleli di Gola, non può che restare sospeso in una surreale e penetrante assenza di gravità.
Carmen Pedullà