Sistema economico al collasso, privilegi che crollano, inferni quotidiani e piccole meschinità.
Questa l’inquietante fotografia della nostra Italia Anni Dieci, scattata quasi all’unisono tra cinema e teatro: i rimandi tra Il capitale umano di Paolo Virzì e la nuova produzione ATIR – una drammaturgia di Edoardo Erba messa in scena da Serena Sinigaglia – ci costringono, come un’eco che amplifica, a fermarci e riflettere.

I protagonisti sono figure così emblematiche da sembrare stereotipate: il dirigente in crisi che vede traballare ciò che ha costruito in anni e anni; la “first lady” che veste firmato e non riesce a immaginare una vita senza carte di credito ad utilizzo illimitato; i precari della nuova generazione, stritolati da condizioni lavorative inumane o dalle aspettative dei genitori. Virzì e Sinigaglia provano a raccontare l’Italia attraverso piccole storie, tanto banali quanto verosimili; e non stupisce che il tentativo arrivi proprio da due registi che, mutatis mutandis, in questi anni non hanno avuto paura di sperimentare narrazioni popolari, dirette, affabili.
Lo stereotipo è un punto di partenza che viene progressivamente approfondito e superato: Bernaschi, il finanziere senza scrupoli di Virzì, diventa (anche grazie allo straordinario Gifuni) un personaggio contraddittorio, persino capace di suscitare empatia. Così anche nell’industriale di Italia Anni Dieci (Stefano Orlandi) – che non avrà remore a tradire la fiducia di familiari e amici – scorgiamo, nostro malgrado, un dolore e una paura che riconosciamo umani. Ci sentiamo, come spettatori, improvvisamente incapaci di dare giudizi troppo tranchant, di separare il bianco dal nero.

E se da un lato rischiamo di immedesimarci negli aguzzini, dall’altro vediamo minato un mondo che sentiamo ben più vicino di quello dell’impresa e della finanza: tanto il film di Virzì, quanto la drammaturgia di Erba non esitano a dipingere un universo culturale abietto, meschino, ripiegato su interessi piccini e biechi. Il Capitale umano ci consegna due cammei deliziosi e avvilenti allo stesso tempo: il viscido professore universitario di Luigi Lo Cascio e la grottesca critica teatrale di Federica Fracassi. E quando Bernaschi/Gifuni si chiede se “è tanto grave, amore” se chiude l’unico teatro della zona, la risata del pubblico in sala è quasi di adesione.
In Italia Anni Dieci di Erba le cose non vanno meglio: uno scalcinato musicista con maglietta di Emergency (Mattia Fabris) usa l’arte come pretesto per farsi mantenere da una madre/amante (la bravissima Beatrice Schiros) e passa il tempo stravaccato sul divano a bere birra e snocciolare giudizi.

La cultura non ci rende migliori e la famiglia non fa la sua parte: ogni rapporto generazionale – nello spettacolo come nel film – è caratterizzato dall’incapacità di comunicare e dalla totale assenza di autonomia emotiva ed economica da parte dei giovani. I modelli genitoriali saltano e nessuna parte della società resta immune dall’epidemia di marcio che sembra decomporre l’intero paese. Cosa resta allora?

Non manca nel Capitale umano, così come dello sguardo di Serena Sinigaglia, una parziale apertura verso uno scorcio di speranza. Sono i rapporti umani che, al di fuori dei compromessi legami familiari e lavorativi, sembrano tirare fuori il meglio dei personaggi: lo slancio di amicizia e solidarietà tra la moglie dell’industriale e la ragazza precaria in Italia Anni Dieci; in Virzì l’amore tra la giovane Serena Ossola e il coetaneo affascinante e problematico che le cambierà la vita. Unico rimedio per sopravvivere, nel nostro mondo in declino, sembra essere la riscoperta dell’altro. O è solo un analgesico?

Maddalena Giovannelli