In un appartamento squadernato, dalle cui porte laterali si intravedono angoli di stanze inaccessibili, un materasso è poggiato in verticale sulla parete di fondo. È l’unico oggetto in questo interno tanto vuoto quanto anonimo, e per questo in qualche modo familiare: perfino quando su quel materasso verticale una violenza sessuale ricalcherà l’iconografia di una crocifissione, frontale e aprospettica; perfino quando il salotto diverrà uno studio d’artista, o il corridoio di una clinica psichiatrica; familiare perfino quando, molto presto e irrimediabilmente, quelle stanze vuote si faranno sature – di tofu grigliato e zuppa di alghe, di polvere di miso e di peperoncino, di kimchi e di aglio: sembrerà quasi di sentirne l’acredine, mentre la Corea del Sud de La vegetariana di Han Kang diventerà, per un paio d’ore, un po’ meno lontana dalla Bologna in cui a teatro debutta l’ultima regia di Daria Deflorian.
Tre atti per tre narratori; eppure, quattro attori in scena: sta in questi numeri una chiave importante del lavoro drammaturgico di Deflorian e Francesca Marciano. Tre dei quattro personaggi, a turno, alternano continuamente e senza preavviso il momento del dialogo a quello del racconto (una lezione che, come ricordato da Deflorian stessa in una recente intervista, risale al Ronconi del Pasticciaccio). Salta, in questa continua oscillazione, la coerenza dei tempi verbali, e presente e imperfetto rimarcano costantemente la discrasia tra azione e ricordo, fatto e narrazione, episodio e memoria. C’è però un quarto personaggio, proprio la protagonista, che questa possibilità non ce l’ha, ed è in questo che emerge tutta la sua marginalità: quella di chi può solamente dire io, senza mai avere il lusso di collocarsi in uno spazio altro e, da lì, osservare la scena; quella di chi può solo essere corpo.
Che sia spesso nudo, allora, questo corpo; che Yeong-hye – una straordinaria Monica Piseddu – decida, finalmente, cosa mangiare e cosa non mangiare; che scelga. Che butti sul pavimento della cucina tutte le buste di manzo congelato: muscoli, sangue, grasso sottovuoto, ora sparpagliati sul pavimento del salotto; che vada a una cena formale coi colleghi del marito senza indossare il reggiseno; che sbucci, incida, ferisca quante più patate possibili, e poi le faccia cadere su quello stesso pavimento. Perché è questo, solo questo, ciò che le è possibile fare mentre sul palco, a pochi metri da lei, è il marito a narrare: della moglie e di quel suo sogno violento che l’ha spinta alla scelta, per lui così insensata, di non mangiare più carne; di quella stessa carne, ora sparita dalla tavola di entrambi; dell’imbarazzo avvertito a quella cena coi colleghi per quei capezzoli così visibili; dell’improvvisa stanchezza di lei, e di quell’assurdo «odore di carne» di lui, presto diventate ragioni per negargli ogni rapporto sessuale. A ben guardare, allora, ciò che quel sogno aveva innescato in Yeong-hye non era stato né rinuncia né privazione: al contrario, non mangiare carne era stato un modo per interrompere una delle tante catene di violenza che la circondavano, per rivendicare uno spazio e far sentire la propria presenza, per uscire dall’invisibilità di un angolo cieco – uno dei molti tra le stanze da cui abbiamo cominciato, disegnate da Daniele Spanò e illuminate da Giulia Pastore – e non essere più solamente quella prima ombra che di lei abbiamo scorto.
In anticipo sull’accademia di Svezia, che ha appena insignito Han Kang del Nobel per la Letteratura 2024, Deflorian ha cominciato a lavorare sulle sue pagine già con Elogio della vita a rovescio, monologo portato in scena lo scorso anno da Giulia Scotti e liberamente ispirato a uno dei temi ricorrenti nei romanzi della scrittrice: quello del definirsi per parentela e, dunque, della violenza insita nelle relazioni che sembrano poterci dire a priori chi siamo. Insistere sui legami familiari, effettivamente, è un ottimo modo per collocarsi, e oscillare, tra il personale e il politico. Si può indugiare più a lungo, però, su questo punto, perché non rischi di passare in secondo piano che la questione politica al centro de La vegetariana non è solamente la violenza domestica (psicologica, verbale, fisica, sessuale), ma anche la violenza specista dell’essere umano sugli animali: e le due dimensioni – come insegna il magistrale lavoro della saggista e attivista Carol Adams, La politica sessuale della carne (1990) – sono tutto fuorché slegate. Non è un caso che una delle scene più violente dell’intero spettacolo sia quella in cui il padre di Yeong-hye tenta di redimere la figlia costringendola con la forza a ingoiare un pezzo di carne, innescando così una spirale di violenza e autolesionismo che porterà all’implosione di tutti i rapporti familiari. Per quanto il vegetarianesimo non sia esplicitamente affrontato come questione politica, oggi più che mai cruciale per l’impatto ambientale delle nostre abitudini alimentari, la scelta che muove l’intero racconto di Han Kang – ovvero il rifiuto di cibarsi di altri esseri viventi – ha il potere di mettere in relazione, proprio come ha fatto Adams, la mitologia della dieta carnivora e la misoginia della società patriarcale.
Se i rapporti di forza restano invariati, però, una decisione individuale, per quanto dirompente, rischia di perdere il proprio potere iniziale, e di venire addomesticata come follia: la presa di posizione di Yeong-hye si trasforma presto in emarginazione poiché tutti – il marito, la sorella, il cognato – leggono la sua scelta come privazione, come autosabotaggio, come spia di una malattia psichica. Sono i tre narratori, allora, ad avere il potere di costruire ciascuno una parte della storia della protagonista.
Rosso, titolo del primo atto e colore di quelle bistecche sparpagliate sul pavimento, è dunque il racconto dell’inevitabilità del divorzio – ed è Gabriele Portoghese a dare voce alle esitazioni di un marito che, per la prima volta in vita propria, si sente messo in discussione. Azzurro, il secondo atto, è il colore di un corpo nudo che diventa tela e si ritrova – nella scena più lirica e probabilmente più memorabile dell’intero spettacolo – ricoperto di petali: sono le frasi, i pennelli, le fotografie del cognato-artista, e lo scalpitìo di Paolo Musio sulla scena, a raccontare l’ennesima appropriazione del corpo di Yeong-hye, nonché la meschinità dell’arte quando si fa complice della violenza, estetizzandola. Verde, infine, è il racconto della malattia, verde come il paesaggio che ora – insieme all’incessante rumore della pioggia in sottofondo – entra con ostinazione perfino in questo interno apparentemente così impermeabile, asettico come l’ospedale in cui Yeong-hye è ricoverata, condannata a una diagnosi già scritta. La sua scelta di rinunciare alla carne, precisa e dirompente, è diventata un generale rifiuto del cibo, e il tentativo di ribellione è stato presto spiegato, e dunque depotenziato, come psicosi. A narrarlo così, nel frattempo costretta a rimettere insieme anche i cocci della propria vita, è la stessa Daria Deflorian, una sorella che è vittima, tanto quanto Yeong-hye, e che tuttavia decide di collocarsi dalla parte di chi osserva, giudica e tramanda. Verde, però, è anche l’albero in cui Yeong-hye vorrebbe trasformarsi – «Guarda, sorella, sto facendo la verticale; sul mio corpo crescono le foglie, e dalle mani mi spuntano le radici…»: il colore di quel confine che nessun altro, in questa storia, ha voluto varcare, il colore di «quella meravigliosa irresponsabilità» che ha permesso alla vegetariana di liberarsi, lasciando tutti gli altri indietro, prigionieri.
Virginia Magnaghi
in copertina: foto di Andrea Pizzalis
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
aiuto regia Andrea Pizzalis
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista assistente Blu Silla
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
comunicazione Francesco Di Stefano
produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
in corealizzazione con Romaeuropa Festival, TPE – Teatro Piemonte Europa, Triennale Milano Teatro, Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, théâtre Garonne | Scène Européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini, Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
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