È un tempo in cui le strade del cinema e del teatro si incontrano sempre più spesso, formando incroci e nuovi tracciati da percorrere e ripercorrere a doppio senso. Lo sanno bene gli spettatori di Antonio Latella i cui lavori teatrali si nutrono spesso di una viva memoria cinematografica. È il caso di Ti regalo la mia morte, Veronika spettacolo ispirato alla pellicola di Reiner Fassbinder in cui la tragica storia di Veronika Voss era interpretata da Monica Piseddu. Ed è proprio l’attrice romana a farsi avanti per prima sul palco della Triennale per accostarsi, ancora una volta, alla sofferenza di una donna. Il dolore, in questo caso, è quello di Giuliana, la Monica Vitti protagonista del Deserto rosso di Antonioni, fonte di ispirazione dell’ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (in collaborazione per drammaturgia e regia con Francesco Alberici).

«Non mi guardate» è la richiesta di intimità che la Piseddu rivolge in breve tempo agli spettatori, quasi a voler alludere alla celebre battuta di Giuliana: «Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?». Un’istanza che intenzionalmente viene subito disattesa: sin da ora davanti agli occhi del pubblico prende forma un panorama interiore. È infatti una dimensione autoriflessiva (quasi ironicamente psicoanalitica) quella in cui l’attrice trasporta la platea in questo primo monologo. Le sue piccole nevrosi e idiosincrasie quotidiane riverberano senza filtri sulle analoghe esperienze degli spettatori, in questo come nei successivi interventi degli attori. Dopo di lei toccherà infatti agli altri quattro interpreti (Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini) raccontare di sé, con quella particolare fibra “teatral-biografica” che subito riconosciamo come propria dei lavori della compagnia.
Famigliare per i frequentatori del duo anche il tono partecipe ma lievemente alienato della recitazione, che, pur rispettando le diverse personalità degli attori, caratterizza l’andamento di un flusso di coscienza continuo, in cui il rapporto tra i protagonisti è quasi solo mentale.
Se la prossemica racconta infatti una relazione umana tenuta a “debita distanza”, è con gli oggetti di scena che gli attori instaurano rapporti duraturi, di affetto e di cura reciproca. Una vecchia poltrona, una cassettiera, un armadio e una coperta sono rifugi sicuri — al pari del termosifone del Cielo non è un fondale— in cui dare spazio ai propri conflitti.
Altro strumento impiegato dalla compagnia è la canzoneDomani di Franco Fanigliulo e due brani scritti da Leonardo Cabiddu e da Francesca Cuttica che ne è anche la voce. Con i suoi refrain la musica scandisce i tempi e, oltre a essere linguaggio congeniale all’attrice/musicista, è anche possibilità di espressione “potenziata”, che cerca di trovare una sintesi al nucleo personale della narrazione.

In questo amalgama sono disseminati più o meno espliciti riferimenti al capolavoro del regista ferrarese che fanno da termine di paragone, da spunto o da modello per le confessioni degli attori.
Eppure c’è dell’altro. I rimandi al Deserto rosso si rivelano molto più che un espediente di racconto. Sono piuttosto il primo strato di un’affinità profonda (di linguaggio, di ritmo e di intenzione) che va oltre il pretesto drammaturgico e il bagaglio di citazioni. Quasi a riprodurre i movimenti della macchina da presa, lo spettacolo alterna infatti lo zoom dei richiami puntuali a campi più ampi. L’ambientazione del film, ad esempio, sintetizzata dalla scenografia in un pannello di stoffa sottile posto come fondale. La Ravenna avvelenata e industriale in cui dilaga il disagio di Giuliana viene qui trasfigurata nelle tinte pastello delle luci che fanno da cartina tornasole agli stati emotivi dei protagonisti. Un utilizzo “espressionista”, quello della luce, che ancora una volta si intona alle scelte stilistiche del film, a maggior ragione se pensiamo che Il deserto rosso è la prima pellicola a colori del regista. Ma ancor più peculiare è il tratto “metereologico” di questo paesaggio dell’anima — che tanto ha condizionato anche la produzione del film. La nebbia, a lungo attesa dal regista durante le riprese, sebbene appaia meno minacciosa sul palco rispetto al precedente cinematografico, è tuttavia oblio inevitabile da cui si arriva (in scena) e in cui si ritorna (alla fine dello spettacolo). Nell’intervallo tra questi due momenti anche la non-azione dei protagonisti segue un ritmo interiore e “senza trama” che ben si accorda all’esistenzialismo di Antonioni.

A questa rivendicata assenza di un tracciato narrativo fa da contrappunto una precisa modalità di entrare in relazione con la materia dello spettacolo. «Mi de-penso» afferma Daria Deflorian. In questo de-pensarsi gli artisti trovano la distanza necessaria per amalgamare la biografia al cinema e ai riferimenti letterari, il movimento del corpo alla parola densa, la leggerezza all’affondo diretto. È sempre la Deflorian, verso la fine dello spettacolo, a leggere al pubblico Buono a nulla di Mark Fisher, un testo in cui l’autore racconta senza filtri la sua depressione: «vi sentite minacciato da una totale perdita di identità, un senso di dolore assoluto; non avete il diritto di essere qui, ora, di abitare questo corpo, di essere vestito in questo modo; siete una nullità, “niente” è esattamente ciò che si sente di diventare».
Così i cupi rumori di sottofondo che animano gli oggetti di scena, lontani dal restituire una sensazione di sfogo e di sollievo, sono piuttosto sintomi di un pericolo sotterraneo, di una deflagrazione sempre imminente. È la percezione di quel «qualcosa di terribile nella realtà» che nessuno vuole dire a Giuliana, la paura della totale alienazione in un “quasi niente” molto simile alla nebbia più fitta.

Camilla Lietti

Quasi niente
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
visto al Teatro dell’Arte Triennale il 21 febbraio 2019