La formula che intitola l’edizione 2024 di Santarcangelo, “while we are here”, oltre a richiamare una serie di istanze care a un festival da sempre concentrato sui rapporti fra politico e performativo, produce un effetto “dialettico” che si riverbera su diversi fronti: se da un lato quel mentre implica tanto un distacco privilegiato quanto una presa di coscienza su una serie di questioni etiche e storiche (che gli appuntamenti e i talk in programma puntualmente riprendono e approfondiscono), dall’altro il mentre apre a una serie di sincronie e dimensioni in cui il nostro qui si connette e intreccia con un che è altro, che è altrove. Uno dei tentativi del festival – non da oggi – è quello di indagare questa connessione di spazi e tempi attraverso l’esperienza concreta di corpi e movimenti di performer e pubblici, alla ricerca di immaginari nuovi e generativi.

Nella seconda settimana, particolarmente concentrata sul rapporto con gli spazi attorno a Santarcangelo, almeno due performance sono riuscite ad attivare queste connessioni in modo particolarmente efficace: L’ombelico dei limbi di Stefania Tansini e The Last Lamentation di Valentina Medda. Per quanto anche la relazione con il pubblico negli spettacoli ospitati dalla palestra dell’Istituto statale Rino Molari (i due Repertório di movimenti fra autodifesa ed erotismo di Davi Pontes e Wallace Ferreira, il dialogo solitario di Baptiste Cazaux con gli altoparlanti di GIMME A BREAK!!!) si faccia portatrice di questioni artistiche, socioculturali e politiche vive e interessanti, nei casi delle artiste italiane il legame con lo spazio gioca un ruolo essenziale e si riflette nell’esperienza e nella partecipazione del pubblico. L’irripetibilità dell’hic et nunc, esaltato dalla dimensione performativa site-specific, nell’orizzonte del festival si coniuga appunto al disegno di immaginari e ambienti fuori dal tempo ordinario: alla ricerca, forse, di un presente invisibile, una realtà del mentre, appunto.

Stefania Tansini, L’ombelico dei limbi, foto di Pietro Bertora

Esalta la natura frammentaria e disorganica de L’ombelico dei limbi proprio il dialogo, oltre che con lo spazio scenico, con il luogo concreto, che grazie alla presenza di Stefania Tansini (e in secondo luogo a luci scarne e a suoni elettronici alienanti, di risucchio e risacca) assume un’aria metaforica e sospesa. È successo al debutto, negli spazi museali del PAC di Milano durante il festival FOG della Triennale, ed è successo in modo originale anche sul rettangolo di cemento dell’ex cementificio Buzzi Unicem di Santarcangelo, fra pini e piante rampicanti, con uno scorcio degli edifici in rovina abbandonati a loro stessi. Questo senso di abbandono ha dialogato con una ricerca corporea e interiore malinconica e a tratti angosciata, ispirata all’Artaud surrealista. Tansini interpreta un corpo artaudiano nella misura in cui si trova costantemente scomoda in uno spazio senza più leggi e misure certe: proprio la messa in discussione di posture e gesti semplici (stare in piedi, cadere, attendere), particolarmente legate al suolo e alla gravità, genera un movimento pieno di cambi di direzione, di torsioni, di improvvisi tentativi di misurazione altra, di allusioni a una relazione quasi utopica con il mondo extracorporeo. 

La perdita di senso riunisce respiro e parola, corpo e voce, alla ricerca di un linguaggio impossibile, che fondi nuove alleanze fra parole e cose. Anche la lingua, tormentata e travagliata da questi tentativi deittici, ci racconta un momento centrale: «All’impossibile, che è impossibile che non è possibile / Alla pelle, alla pelle di chi. Alla pelle che si perde. Si perde la pelle di chi. All’indicibile / Al frammentato, allo scomposto, al dissociato, all’intoccabile, all’incontenibile, / all’indomabile. All’indicibile / A qualcosa che esiste». Procedendo nella negazione e nell’ambigua contraddizione che offusca pronomi e proposizioni, parole e gesti arretrano e ritrovano la terra (la durezza del cemento), in un tormentato non-finito che alza i ritmi nel finale: come schiacciata da un reale opprimente, Tansini pare rincorrere quel «qualcosa che esiste» con movimenti che scappano dall’io, lo de-soggettivizzano mentre quasi disarticolano il corpo, in spasmi che rimandano alla folle solitudine di Artaud. L’ex-cementificio, in meno di un’ora, diventa un luogo dello spirito, dove persino gli elementi surrealisti dello spettacolo (dai guanti in pelle all’inchiostro azzurro sul braccio, dalla chioma-serranda sul volto al lenzuolo in cui il corpo si avvolge) sembrano emersi dalle crepe e dalle finestre rotte.

Valentina Medda, The Last Lamentation, foto di Pietro Bertora

Di maggior impatto visivo è senz’altro l’“elegia funebre” The Last Lamentation di Valentina Medda, una performance nata sulle e per le acque del Mediterraneo e riallestita appena fuori Santarcangelo, sul letto del fiume Marecchia completamente prosciugato dal caldo. Se la performance era pensata e dedicata al Mediterraneo, luogo dei morti sotto molteplici letture, ora la scomparsa  dell’acqua porta l’assenza da piangere a un grado ancor più elevato: le undici “lamentatrici” non interagiscono più con l’immensa bara-corpo d’acqua, ma con la sua assenza, richiamata dal letto di ciottoli bianchi. Il rito a cui il pubblico assiste da una piccola altura acquista dunque un nuovo significato, sicuramente più desolante. Del resto le ritualità sarde e non (grazie a una ricerca che è cominciata dalla Barbagia di Nuoro) da cui attingono le lamentatrici, fra sussurri, tuniche nere e gestualità, sono scarnificate e ridotte all’osso, restano una matrice che quasi assolutizza il rito e gli dà una spontaneità inaudita nel qui e ora santarcangiolese. Come se ci perdessimo fuori dalla città e assistessimo a un fenomeno spettrale, The Last Lamentation instaura un rapporto molto particolare con la spettatrice, basato soprattutto sulla distanza: dalle performer, che si stagliano fra sassi bianchi e canneti quasi a riscrivere il paesaggio, a tentare un nuovo, e antichissimo, rapporto con esso; dai loro movimenti rituali, verso cui sentiamo un moto insieme nostalgico e di allontanamento, quasi ne fossimo esclusi; dall’idea stessa di pianto nella contemporaneità, troppo spesso condannato come inopportuno, improduttivo e quindi socialmente stigmatizzato. Questo gioco di distanze è esaltato, per contrasto, dalle casse che, invece prossime al pubblico, amplificano (e rielaborano elettronicamente, grazie al lavoro di Alessandro Olla e Gaspare Sammartano) il marginale, indiscernibile, intricato sussurrare. Ne riflette in questi termini Maria Paola Zedda, dramaturg e curatrice del progetto, nel libro a esso dedicato: 

Sinistre presenze, questi fiati, sussurri si fanno strada nel paesaggio, creando una partitura che è pneuma, relazione tra il dentro e il fuori del corpo, tra la spugnosità dei polmoni e il loro farsi aria, nutrimento, ossigeno, sangue. Olla tesse un mondo di suoni elettronici e ambientali, creando una polifonia transumana, marina, aerea, animale. Il disegno acustico dell’ambiente crea un’ambiguità nella percezione della sorgente sonora, una sospetta prossimità della fonte attraverso il disegno di spazializzazione del set acustico, permeando il contesto di una spettralità inattesa.

Quest’«ambiguità» non rimane semplice gioco artistico, ma produce un’esperienza di rifrazione della distanza che rompe orientamenti e presenti e che nel paesaggio naturale diventa lontananza secolare e rende il mentre più complesso e profondo, sicuramente molto meno nostro.

Riccardo Corcione


in copertina: foto di Pietro Bertora
la citazione è tratta da V. Medda, The Last Lamentation, a cura di M. P. Zedda, Milano, Kunstverein, p. 38.

L’OMBELICO DEI LIMBI
progetto, coreografia, danza, costumi Stefania Tansini
musica Paolo Aralla
luci Elena Gui
dramaturg Raffaella Colombo
tutor Silvia Rampelli
vocal care Monica Demuru
direttore tecnico Omar Scala
assistente ai costumi Chiara Sommariva
grazie a MeArTe_ fabrics and tailoring
coproduzione Fondazione Teatro Grande di Brescia, Romaeuropa Festival, Tpe-Teatro Piemonte Europa / Colline Torinesi, Nanou associazione culturale

THE LAST LAMENTATION
di Valentina Medda
con Ornella Bavaro, Beatrice Brunetto, Eleonora Camerotto, Barbara Cavaliere, Camilla Crescentini, Manuela Manca, Martina Gabrielli, Elena Gozzi, Sofia Longhini, Anna Laura Penna, Dina Rotatori
musiche Gaspare Sammartano
main vocalist Marianna Murgia
produzione ZEIT Art Research
coproduzione Sardegna Teatro, Santarcangelo Festival
diffusione Valentina Medda
progetto curato da Maria Paola Zedda nell’ambito e con il sostegno dell’Italian Council (2022), Direzione Generale Creatività Contemporanea, Ministero della Cultura