Coreografie di Mats Ek, William Forsythe, Akram Khan, Russell Maliphant
visto al Teatro Carlo Felice di Genova _ 5 luglio 2015

Per quanto Sylvie Guillem abbia deciso di consacrare il suo addio alle scene con un tour mondiale il suo saluto è tutt’altro che nostalgico. Non i grandi classici che l’hanno resa nota in tutto il mondo, niente amarcord e rimpianti. Piuttosto, la ballerina francese segue il suo cammino sul crinale della ricerca di linguaggi diversi e della danza contemporanea. E lo fa chiamando a sé quattro dei grandi coreografi con cui ha condiviso alcune tappe del suo percorso. Akram Khan e Russell Maliphant – entrambi artisti associati, come Sylvie, del Sadler’s Wells di Londra, principale produttore di questo spettacolo – hanno creato per l’occasione due coreografie del tutto inedite, William Forsythe ha riadattato un brano di repertorio del 1995 e infine Mats Ek ripropone Bye, eseguito per la prima volta nel 2011, chiusura calzante in questa dipartita. Nelle diverse identità dei coreografi, il tratto comune sembra essere una certa sensibilità verso la matericità della danza, verso il limite tra la precisa armonia del movimento e l’imperfezione della condizione umana.

Tra tutte, la collaborazione di più lunga data è quella con Forsythe, iniziata nel 1983 con France Dance e consacrata nel 1987 da In the middle, Somewhat elevated. Per il saluto alle scene di Sylvie, Forsythe presenta l’unico brano della serata che non la vede in scena. Duo, pensato nel 1996 per due danzatrici donne, qui in una nuova partitura al maschile. Brigel Gjoka e Riley Watts danno corpo al tempo con movimenti definiti e via via sempre più energici, in un bilanciamento di equilibri e disequilibri che sembra incarnare la binarietà, convergente sempre ad uno stesso fulcro, delle lancette di un orologio. Articolano e disarticolano gli arti, corrono in cerchio sul palco, si allontanano e si avvicinano restando sempre un’entità unica. La sincronia si definisce alternativamente tra passi eseguiti all’unisono o in contrappunto, pause condivise o alternate, mentre la relazione tra tempo, movimenti e spazio è controllata dalla cadenza del respiro.
Le musiche di Thom Willems seguono, quasi sottovoce, le sincroniche inspirazioni ed espirazioni dei due danzatori, che come un metronomo definiscono la matrice ritmica della danza.

Quello con Akram Khan è invece un incontro piuttosto recente, sancito nel 2006 dal duetto Sacred Monsters, di cui Khan era coreografo e partner sul palco. Techne è un solo che si interroga sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia: forse il brano meno coinvolgente della serata, nonostante la perfezione visiva. Fulcro della scena è qui una scultura filiforme in ferro a forma di albero, con cui i movimenti di Sylvie – prima involuti e sincopati, poi sempre più energici e dinamici – entrano in relazione, guidati da un proiettore di luce semovente.
Le musiche di Alies Sluiter sono eseguite dal vivo da tre musicisti: resi visibili da altrettanti fasci luminosi oltre la tela di fondo, appaiono come presenze diafane che non appartengono alla scena ma ne dirigono l’azione.

Russell Maliphant conduce Sylvie Guillem in un passo a due con Emanuela Montanari. Here & After lavora sulla relazione tra i corpi: se in Duo i performer non si toccano ma creano un sincrono a distanza, qui le due ballerine sono continuamente in contatto diretto (così come lo erano Guillem e Maliphant in Push, del 2005). I due corpi esplorano insieme le potenzialità del movimento, all’unisono, mescolando generi e tecniche diversi. Le luci di Michael Hulls delimitano lo spazio di azione in dilatazioni e compressioni che divengono elemento centrale della coreografia. Lavorando sul modulo del quadrato, moltiplicato in fasce lineari, a L o in una cornice, e immediatamente ridotto a un fazzoletto di palcoscenico in cui le ballerine comprimono la loro danza, il gioco sapiente delle luci governa il movimento e la sua ampiezza.

L’ultimo saluto alle scene è affidato a Mats Ek con Bye, già debuttato nel 2011: “la storia di una donna che supera una certa fase della propria vita. Una conversazione che intrattiene con se stessa, che porta a nuove esperienze”. L’occhio gigante di Sylvie guarda il teatro dal buco della serratura, da una porta che dà sul mondo reale: un occhio troppo grande che diventa in poco tempo molto piccolo, un’Alice nel paese delle meraviglie che entra in scena varcando un pannello, supporto di un riuscito gioco di video. Accarezza il palco, lo attraversa, si toglie le scarpe e il golfino, parti di un abbigliamento che le conferisce un aspetto quasi dimesso. Si immerge in un registro di movimento che forse meglio di tutti combacia con le sue specificità di danzatrice e che indaga le incertezze e le inquietudini della condizione umana con un’introspezione che era anche di Smoke, creato da Mats Ek per Sylvie nel 1995. Lo spazio scenico qui è un quadrato di luce lambito da quella porta luminosa da cui è entrata: uno schermo interattivo su cui vengono proiettate con estremo realismo figure estranee, immagini del mondo reale. Con grande delicatezza, e nell’estrema precisione del movimento, Sylvie Guillem torna a essere parte di quell’immagine proiettata: varca la soglia e si confonde in mezzo alle persone nella luce abbacinante della realtà.

Anche se l’intenzione non fosse stata quella di commuovere, l’applauso del pubblico, nella sala del Teatro Carlo Felice di Genova, interno dai caratteri urbani che abbraccia platea e palcoscenico, pare straziante nella sua lunghissima durata.

Francesca Serrazanetti