Mettere in scena il Reso è esperienza rara e audace. Eppure succede anche questo nella Grecia della crisi, e per di più in uno scenario mozzafiato. È stato infatti un luogo non convenzionale a orientare la scelta della giovane regista Katerina Evanghelatou. Dalla scorsa estate, nel cuore di Atene, è accessibile al pubblico uno spazio che racchiude i resti visibili di fondamenta e porticati datati alla seconda metà del IV secolo: si tratta del Liceo di Aristotele, una delle palestre dell’antica Atene, dove nel 335 a.C. il grande filosofo aprì la sua scuola.

Dal 8 luglio al  9 agosto l’appuntamento è ai cancelli del sito archeologico. Il pubblico viene diviso in quattro gruppi e guidato all’interno, lungo i sentieri tracciati dalla sovrintendenza. Il respiro della città è là fuori, eppure sembra lontanissimo, mentre si cammina lungo il perimetro dell’antico Liceo fra avvallamenti, rovine e cespugli di lavanda. La luce del tramonto rende ancora più suggestivo lo scenario, disegnando profili e cavità d’ombra. Per la prima mezz’ora lo spettatore si trasforma in un pellegrino itinerante, o meglio in un visitatore ‘peripatetico’: sono previste cinque tappe, durante le quali gli attori si cimentano in gare di corsa e di lotta, imitando quanto accadeva secoli fa nel Liceo, e intanto una voce off recita passi dall’opera del filosofo che trattano del senso dello spazio, delle percezioni e soprattutto dell’origine dei sogni. Al termine di questa prima parte (“la porta d’ingresso di Aristotele”, come è stata definita dalla critica), il pubblico prende posto nelle sedie approntate sul prato. Nel frattempo la luce è calata, si è creato il quadro notturno descritto nell’incipit del Reso, e lo spettacolo ha inizio.

Come è noto, il Reso ci è giunto nel corpus delle tragedie euripidee, ma per secoli si è dibattuto intorno alla questione della paternità dell’opera. Oggi la maggioranza degli studiosi è concorde nel definirlo un testo spurio, frutto di una mano ancora inesperta. Analisi testuali hanno infatti evidenziato le debolezze drammaturgiche, le particolarità stilistiche e linguistiche troppo distanti dal dettato euripideo, e si sono formulate varie ipotesi sulla possibile identità dell’autore, senza arrivare però a una conclusione definitiva.
La regista ha realizzato questo spettacolo non spinta da un interesse filologico, bensì cogliendo la sfida di un testo che si pone sotto la cifra dell’ambiguità e dell’incertezza. Oltre ai dubbi sull’autore (segnalati peraltro nel cartellone con la dicitura “Euripide?”), tra gli esperti regna anche imbarazzo e disaccordo nel definire il genere letterario: si tratta di una tragedia, o di una forma di contaminazione con i modelli della commedia e del dramma satiresco? Ecco dunque una chiave d’accesso per lo sguardo contemporaneo: Reso è un’opera in un certo senso “liquida”, che sfugge a categorie precise e sceglie l’imprevisto della mescolanza e le punte critiche dell’ironia.

L’opera rielabora un famoso episodio iliadico (libro X), la cosiddetta Dolonia, ossia l’avventura notturna di Odisseo e Diomede nel campo troiano, la strage e l’uccisione fra gli altri di Dolone, inviato da Ettore come spia, e del re trace Reso. Il punto di vista è però sul campo troiano, in una notte decisiva e vibrante di inquietudine. La prima parte dello spettacolo della Evanghelatou è all’insegna di una giocosa parodia, a tratti però stucchevole e caricaturale: Ettore calza un cappello bicorno alla Napoleone e sbraita in un altoparlante come un dittatore isterico; l’esercito troiano è armato con spade di cartone, gli elmi sono imbuti o barchette di carta; Reso inciampa nel suo mantello e nelle parole… Punto di forza invece, come è tradizione in Grecia, è il Coro, mai personaggio secondario, bensì comunità unita da un dinamismo energico che si esprime in fughe, rincorse, salti, danze pirriche, sul ritmo (dal vivo) di flauti, trombe e tamburi del Conservatorio di Atene.

La parte migliore dello spettacolo è senz’altro la seconda. In un monologo intenso l’auriga di Reso spiega a Ettore la triste fine del suo re. Dolce è il sonno nell’ora in cui si annuncia l’alba, e infatti la schiera trace si addormenta. In sogno l’auriga vede l’assalto di lupi contro i cavalli di Reso e, svegliatosi di soprassalto, scopre il padrone agonizzante, ucciso da mano sconosciuta (Odisseo e Diomede, protetti dal buio e da Atena). Morte e sogno si rivelano dimensioni contigue ed enigmatiche. La regista accentua questa ambiguità con un’efficace invenzione drammaturgica. Dopo la lunga notte di veglia, Ettore dà gli ordini all’esercito, annuncia l’attacco dell’indomani e stremato si addormenta di un sonno pesante, quello stesso da cui lo avevano destato le guardie all’inizio dell’opera. Tutto si ripete, e anzi si ha l’impressione che forse tutto è stato un sogno. All’improvviso, solo in scena, il principe troiano si sveglia e vaga stordito fra le rovine del Liceo che, nel buio fitto, somiglia ora a un labirinto. Corre poi verso l’unica luce rimasta accesa e infine si perde nel cuore della notte, simbolo del destino di morte che lo attende.
Sospeso nell’incertezza dell’attribuzione e del genere letterario, il Reso ben si presta all’atmosfera fluida del sogno. Un sogno venato di nostalgia per la spensieratezza giocosa dell’infanzia, che scivola lento verso l’incubo della cruda realtà: la guerra di Troia che assedia le nostre vite, e cioè la violenza e la morte, deve continuare.

 Gilda Tentorio