“Gli amatori”, annota Virgilio Sieni in un bel volume dal titolo La città nuova (Firenze, 2016), “sono il vero tramite per la cura dei luoghi: mi sembra che immettano negli spazi dilatazione, che preservino la bellezza”.

Forse guidata da una simile riflessione, Roberta Nicolai ha scelto di dedicare un’importante sezione del suo festival Teatri di Vetro (Roma, dicembre 2019) ai processi partecipativi e al coinvolgimento degli spettatori. E proprio per questo ha scelto per gli incontri tra artisti e cittadini non il frequentato Teatro India (dove sono stati ospitate altre performance ed eventi) ma il Teatro del Lido di Ostia: uno spazio comunale a pochi passi dal mare, che si pone come baluardo di resistenza di un territorio tanto affascinante quanto complesso, tra gli abusi del turismo e le intromissioni di piccola e grande criminalità.

Per entrare in relazione con la comunità di Ostia, Roberta Nicolai ha selezionato tre coreografe rilevanti a livello nazionale: Paola Bianchi, Chiara Frigo, Silvia Gribaudi. La scelta è significativa per due motivi. Il primo: aprire le attività creative ai cittadini non significa semplificare, ma al contrario condividere professionalità e metodologie di lavoro all’avanguardia. Il secondo: in questi anni la danza contemporanea, ancor più del teatro, si sta prendendo con crescente impegno il compito di riapprendere, reinsegnare e condividere una forma di socialità determinata innanzitutto dalla prossimità fisica. La grammatica del corpo viene strappata ai dettami della pura funzionalità, e si riscopre invece come occasione per ricostruire quel tessuto di relazione con l’altro troppo spesso negato nella quotidianità.

Chiara Frigo: incontrarsi sul dancefloor

Incontrarsi in uno spazio pubblico per danzare, trovare sollievo delle angustie di lavoro e vita fa bene alla salute: la sapienza antica delle balere di nonni e bisnonni oggi viene riscoperta come antidoto alle accelerazioni disumane del turbocapitalismo e all’incorporeità del digitale.
I dati offrono un riscontro tangibile della sete di esperienze che promettono ricerca sul corpo e possibilità di interazione: i laboratori, i corsi di danza e di balli popolari, le call che cercano performer tra i cittadini ottengono ovunque un notevole e crescente successo.

In questa prospettiva si è diretta Chiara Frigo con Ballroom, un progetto che ha mosso i primi passi nel 2013 e che è approdato in questa occasione ad Ostia. Attraverso un laboratorio di poche giornate, la Frigo coinvolge un gruppo di cittadini, condividendo con loro alcune semplici istruzioni coreografiche. A questa piccola comunità si unisce nel momento della performance un’altra cerchia, quella degli spettatori che vogliono prendere parte alle danze: l’atmosfera riprodotta è quella della balera, con luci colorate e vestiti buoni tirati fuori per l’occasione. E poi bigliettini, confidenze mormorate all’orecchio, ricordi del primo amore.

In una cornice effimera di festa e di gioco, Ballroom ci offre una riflessione non banale sulle potenzialità dell’aggregazione e della socialità oggi. Si riscoprono la dimensione del piacere – di danzare, ma non solo –, il bisogno di riconquistare nello spazio pubblico un posizionamento non necessariamente transitorio, la necessità di sospendere per un certo tempo le proprie abitudini di comportamento. Una piccola effimera comunità, inefficiente e improduttiva, si ritrova nel semplice atto di stare con l’altro.

Paola Bianchi e la condivisione di un vocabolario

Come pensiamo il nostro corpo in movimento? Attraverso immagini o parole? Siamo capaci di riattivare il ricordo di una postura avvalendoci solo della dimensione verbale? Su tutto questo Paola Bianchi sta lavorando da anni, indagando la possibilità del corpo di trasmettere un gesto o un movimento codificato a un altro corpo solo attraverso l’uso della parola descritta. La coreografa sta riempiendo così, esperienza dopo esperienza, un enorme archivio mnemonico (intorno a questo si articola il progetto Energheia, presentato a Teatro India durante il festival). Sugli stessi temi Paola Bianchi svolge anche laboratori rivolti a non professionisti di varie età. Alessandro Pontremoli, in un breve testo pubblicato nel catalogo del festival, mette in luce come la coreografa abbia sempre “rivendicato con forza il valore politico del corpo danzante”; e non stupisce dunque come le sue pratiche si rivolgano a ogni genere di utente (disabili fisici e mentali, persone affette da Parkinson, persone ipovedenti e non vedenti), sperimentando la possibilità di tutti i corpi di far proprie e di incarnare soggettivamente quelle partiture verbali.

A Ostia, Paola Bianchi ha lavorato con un gruppo ristretto ma fortemente intergenerazionale: adulti e bambini si sono trovati a condividere le stesse esperienze e gli stessi stimoli, trovando una qualità di movimento e di ascolto reciproco sorprendentemente unitario. Attraverso questa esperienza, si propone ai cittadini di Ostia un rapporto rinnovato con la disciplina danza: non un sapere inaccessibile, che pochi possono esercitare per delega del pubblico, ma un universo a cui si può avere accesso attraverso la condivisione di qualche elemento di grammatica, e la comunicazione in presenza. Accorciate le distanze, lo spettatore arriva a trovarsi sullo stesso piano dei danzatori; e così anche l’atto del guardare ne esce trasformato.

Il gioco delle icone. Qui e Ora/Silvia Gribaudi

Imitare qualcuno non è mai un gesto neutro. Lo sapevano bene gli antichi greci, che amavano scavare nei significati delle parole. Dietro al verbo mimeisthai si nascondono infatti due accezioni: da una parte “imitare, e rispecchiarsi in”; dall’altra “recitare”, “agire un personaggio”. Osservare e scegliere un modello e poi metterlo in atto sono due facce della stessa medaglia.

Su tutto questo si interroga il progetto Tre, che nasce dall’incontro tra Silvia Gribaudi e la compagnia Qui e Ora. Si tratta, per la verità, un reincontro: Gribaudi aveva diretto Francesca Albanese, Silvia Baldini e Laura Valli già nel 2016, con My place. Il corpo e la casa. Ora si riaprono i lavori, con un vero e proprio cantiere di ricerca. Il tema è quello dell’imitazione delle icone e del processo di creazione dei miti. Scegliamo consapevolmente i nostri eroi o veniamo eterodiretti? Aderire all’immagine di qualcun altro significa cancellare la propria, oppure riscoprirla in modo nuovo? Quanto ci giudichiamo o veniamo giudicati quando imitiamo un modello?

Teatri di Vetro ha offerto al progetto Tre la possibilità di un primo incontro con cittadini di diverse età, in uno scambio alla pari di domande, questioni, miti e scelte. Si tratta del primo mattone di una costruzione complessa e ancora in divenire, alla quale daranno apporto anche interessanti personalità autoriali come Matteo Maffesanti e Marta Dalla Via. L’energia sprigionata sul palco in occasione dell’esito di laboratorio a Ostia – guidato dall’energica presenza di Gribaudi in scena – è un promettente avvio delle prossime tappe. In particolare, varrà la pena riflettere sulle interessanti ricadute del coinvolgimento di giovanissimi non professionisti, proprio come quelli che hanno animato il palco di Ostia: sono proprio le nuove generazioni quelle più esposte alla sempre più schizofrenica insorgenza di modelli e di icone. E a loro toccherà sceglierle, incarnarle, o tenersene al riparo.

Maddalena Giovannelli

 

*Fotografie di Margherita Masè